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QUANDO A PAGARE SONO GLI INNOCENTI

Ultimo Aggiornamento: 30/08/2010 22:52
30/08/2010 22:52
 
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Gli innocenti in galera: non solo Tortora

Potrebbe accadere a chiunque, anche a noi, oppure ad un nostro caro, d'essere rinchiusi "per errore", non sarebbe la prima volta che succede.


/www.repubblica.it/2008/11/sezioni/cronaca/domenico-morrone/domenico-morrone/domenico-morrone.html

Domenico Morrone fu riconosciuto innocente dopo 15 anni, due mesi e ventitré giorni passati ad ammuffire in carcere.
Il più grave errore giudiziario nella storia della Repubblica.
Aveva 27 anni il giorno dell'arresto, 30 gennaio 1991, accusato del duplice omicidio di due minorenni a Taranto, la sua città.
Pescatore incensurato, famiglia onesta, una fidanzata.

Era un uomo di 42 anni piegato dalla malasorte quando lo fecero uscire: i capelli ingrigiti dalla sofferenza, preda di gravi depressioni, un fisico appesantito di venti chili.
Nella promiscuità aveva contratto alcune malattie, tra cui l'epatite b. Inutilmente aveva gridato al vento la sua innocenza.
Nessuno gli aveva creduto.



In Italia dal dopoguerra - ha calcolato l'Eurispes - 4 milioni di persone sono state vittime di errori giudiziari o di ingiusta detenzione.
L'errore giudiziario si verifica quando, dopo i tre gradi di giudizio un condannato viene riconosciuto innocente solo in seguito a un nuovo processo, detto di revisione.

Due avvocati, Claudio Defilippi e Debora Bosi, raccontano l'inferno delle ingiustizie in Toghe che sbagliano, Aliberti editore.
Il caso più reclamizzato è quello di Enzo Tortora.
Ma è solo il più noto.


Un altro caso limite fu quello di Massimo Carlotto: sei anni di carcere, altrettanti di latitanza.
Fu arrestato il 20 gennaio 1976. La grazia del presidente Scalfaro arrivò il 7 aprile 1993.
Carlotto, forse non a caso, scrive fortunati noir.


Daniele Barillà, condannato per traffico di droga perché con la sua auto si trovò sulla tangenziale sbagliata durante un inseguimento a un carico di 50 chili di cocaina: sette anni, cinque mesi e dieci giorni di galera.
Arresto il 13 febbraio 1992.
Il verdetto favorevole alla revisione del processo: il 23 luglio 1999.
La sua storia è diventata un film.
Ora vive all'estero.
Lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di tre milioni di euro.



Massimo Pisano nel '93 fu accusato per avere ucciso la moglie, Cinzia Bruno, a Riano, vicino Roma.
Cadavere trovato sul greto del Tevere.
A condannarlo fu la confessione dell'amante, Silvana Agresta.
Movente: voleva liberarsi della moglie per potersi risposare.
Il 18 aprile 1996 la Cassazione chiude il caso: ergastolo.
Otto anni in carcere.
Poi la revisione del processo.
Cambia tutto.
La mattina del delitto si trovava al catasto.
Ci sono ventidue riscontri documentali e testimoniali.
Ad uccidere la moglie fu l'amante.
Motivo: il rapporto tra i due amanti era in crisi e la donna temeva che Pisano volesse rompere la relazione.



Salvatore Gallo, accusato di aver ucciso il fratello Paolo nel 1954 ad Avola, fu scarcerato dopo sette anni perché Paolo invece che al camposanto viveva sotto mentite spoglie in un casale. Una messinscena tremenda, per far condannare il fratello all'ergastolo.
Fu scarcerato, ma non ebbe una lira.
All'epoca l'ingiusta detenzione non era contemplata dalla legge.


Il caso Morrone è il più sconcertante di tutti. L'anziana madre è morta un anno dopo la sua liberazione, il 21 aprile 2006.
Fa lo spazzino e ha chiesto allo Stato un risarcimento di 12 milioni di euro.
La notte si sveglia di soprassalto, sente il rumore delle pesanti chiavi delle guardie carcerarie.
Pensa di essere ancora in prigione.
La sua storia mette inquietudine.
Per due volte la Cassazione annullò le sentenze d'appello, ordinando nuovi processi e per altrettante volte la Corte d'assise di Bari confermò la condanna a 21 anni, una pena relativamente esigua per un delitto così efferato, segno, fanno notare gli autori, uno dei quali è il difensore del pescatore, che i giudici erano tormentati dai dubbi. La mattina del delitto aveva incontrato un amico appuntato, avevano conversato, poi aveva aggiustato l'acquario dei vicini.
I vicini avevano confermato.
Non bastava come alibi.

I giudici trovarono il movente nel fatto che Morrone aveva denunciato i due ragazzini per un oscuro traffico di motorini, e perciò era stato vittima di un agguato.
L'omicidio sarebbe stato una vendetta.
Finì in cella accusato da due minorenni semianalfabeti che sostenevano di averlo riconosciuto sul teatro del delitto.
Gli fecero l'esame sulla polvere da sparo: negativo. La giustizia fu celere: due anni dopo era già condannato in secondo grado.
Fece lo sciopero della fame due volte. Scrisse ad Amnesty international.
Interpellò il capo dello Stato.
Presentò sei istanze di revisione del processo.
Sette gradi di giudizio e quindici anni dopo (quindici!) due pentiti rivelarono che l'omicida era un tale Antonio Boccuni, che si era voluto vendicare dello scippo che i due minorenni avevano compiuto a danni della madre.



Certo! Dirà qualcuno, questo succede solo agli altri!



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