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Sulla Credenza

Ultimo Aggiornamento: 24/07/2010 20:52
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14/07/2010 18:23
 
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Sulla Credenza

DI JIDDU KRISHNAMURTI 





Credenza e conoscenza sono legate molto intimamente al desiderio e, forse, se riusciamo a comprendere questi due fattori, possiamo percepire il funzionamento del desiderio e capirne le complessità.


Una delle cose - mi sembra - che la maggior parte di noi è pronta ad accettare senza discutere è la questione delle credenze. Non intendo attaccare le credenze. Ciò che stiamo cercando di fare è di scoprire perché accettiamo questa o quella credenza; e se riusciamo a comprendere le motivazioni, le cause di tale accettazione, allora forse potremo essere capaci non solo di capire il perché, ma anche di liberarcene.

È facile vedere come
le credenze politiche, religiose, nazionalistiche o di altro tipo dividano la gente, creando conflitto, confusione e antagonismo - è un fatto palese, eppure siamo riluttanti ad abbandonarle.

C'è la fede indù, la fede cristiana, quella musulmana, quella buddista, ci sono le innumerevoli credenze settarie e nazionali, le varie ideologie politiche, tutte in competizione reciproca, ognuna che cerca di prevalere sulle altre. Balza agli occhi il fatto che le credenze dividono la gente, creando intolleranza; ma è possibile vivere senza credere in qualcosa?

Lo si può scoprire soltanto riuscendo a studiare se stessi in rapporto a una credenza. È davvero possibile vivere in questo mondo senza credere in qualcosa - non mutare convinzioni, non sostituire una credenza all'altra, ma essere, davvero, interamente liberi da qualunque credenza, in modo da andare incontro alla vita come se fosse sempre, in ogni momento, nuova?

Dopo tutto, questa è la verità: avere la capacità di accostarsi a ogni cosa come se fosse la prima volta, attimo per attimo, senza i condizionamenti del passato, di modo che non ci sia quell'effetto cumulativo che agisce come barriera fra se stessi e ciò che è.


Se si riflette, ci si accorge che una delle cause del desiderio di accettare una credenza è la paura. Cosa ci accadrebbe se non credessimo in nulla? Non dovremmo temere quel che potrebbe succederci?

Se non avessimo alcun modello d'azione fondato su una credenza - in dio, o nel comunismo, o nel socialismo, o nel libero mercato, o nella democrazia, o in qualche tipo di formula religiosa,
di dogma che ci condiziona, non potremmo fare a meno di sentirci completamente smarriti, non è così?

E l'accettazione di una credenza non è, in definitiva, proprio questo: un modo di mettere a tacere quella paura, la paura di non esser nulla, di essere vuoti? Dopo tutto, però, una tazza è utile soltanto quando è vuota;
e una mente piena di credenze, di dogmi, di asserzioni, di citazioni, non è certo una mente creativa, è semplicemente ripetitiva.

Sfuggire a quella paura - la paura del vuoto, la paura della solitudine, la paura del ristagno, la paura di non arrivare, di non riuscire, di non ottenere qualcosa, di non essere qualcosa, di non diventare qualcosa - è certamente una delle ragioni per cui aderiamo alle varie credenze con tanto entusiasmo, con avidità.

E attraverso l'accettazione di una credenza, comprendiamo forse meglio noi stessi? Al contrario.

Una credenza, religiosa o politica, ostacola ovviamente la comprensione di noi stessi.

Agisce come uno schermo attraverso cui ci guardiamo.


Ma è possibile guardarsi senza tale schermo?
Se si rimuovono quelle credenze, le tante credenze che ognuno di noi ha, rimane qualcosa da guardare? Se non c'è più alcuna credenza con cui la mente si identifichi, allora la mente, priva di identificazione, è capace di guardare a se stessa così com'è: e a quel punto, sicuramente, si ha un primo barlume di comprensione di sé.

[Modificato da ®@ffstef@n 14/07/2010 18:27]
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"Dio è l'unico essere che, per regnare, non ha nemmeno bisogno di esistere." (Charles Baudelaire)

Il credere in qualcosa non dipende dal credere o no in un essere superiore.

Dipende da noi, fare delle scelte e stabilire, in piena libertà l'identificazione di noi stessi, nel nostro cammino......

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[Modificato da parliamonepino 24/07/2010 14:55]



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Trattato di Dio. Esistenza di Dio
Se sia di per sé evidente che Dio esiste

SEMBRA che sia di per sé evidente che Dio esiste. Infatti:



1. Noi diciamo evidenti di per sé quelle cose, delle quali abbiamo naturalmente insita la cognizione, com'è dei primi principi. Ora, come assicura il Damasceno "la conoscenza dell'esistenza di Dio è in tutti naturalmente insita". Quindi l'esistenza di Dio è di per sé evidente.

2. Evidente di per sé è ciò che subito s'intende, appena ne abbiamo percepito i termini; e questo Aristotele lo attribuisce ai primi principi della dimostrazione: conoscendo infatti che cosa è il tutto e che cosa è la parte, subito s'intende che il tutto è maggiore della sua parte. Ora, inteso che cosa significhi la parola Dio, all'istante si capisce che Dio esiste. Si indica infatti con questo nome un essere di cui non si può indicare uno maggiore: ora è maggiore ciò che esiste al tempo stesso nella mente e nella realtà che quanto esiste soltanto nella mente: onde, siccome appena si è inteso questo nome Dio, subito viene alla nostra mente (di concepire) la sua esistenza, ne segue che esista anche nella realtà. Dunque che Dio esista è di per sé evidente.

3. È di per sé evidente che esiste la verità; perché chi nega esistere la verità, ammette che esiste una verità; infatti se la verità non esiste sarà vero che la verità non esiste. Ma se vi è qualche cosa di vero, bisogna che esista la verità. Ora, Iddio è la Verità. "Io sono la via, la verità e la vita". Dunque che Dio esista è di per sé evidente.

IN CONTRARIO: Nessuno può pensare l'opposto di ciò che è di per sé evidente, come spiega Aristotele riguardo ai primi principi della dimostrazione. Ora, si può pensare l'opposto dell'enunciato: Dio esiste, secondo il detto del Salmo: "Lo stolto dice in cuor suo "Iddio non c'è"". Dunque che Dio esista non è di per sé evidente.

RISPONDO: Una cosa può essere di per sé evidente in due maniere: primo, in se stessa, ma non per noi; secondo, in se stessa e anche per noi. E invero, una proposizione è di per sé evidente dal fatto che il predicato è incluso nella nozione del soggetto, come questa: l'uomo é un animale; infatti animale fa parte della nozione stessa di uomo. Se dunque è a tutti nota la natura del predicato e del soggetto, la proposizione risultante sarà per tutti evidente, come avviene nei primi principi di dimostrazione, i cui termini sono nozioni comuni che nessuno può ignorare, come ente e non ente, il tutto e la parte, ecc. Ma se per qualcuno rimane sconosciuta la natura del predicato e del soggetto, la proposizione sarà evidente in se stessa, non già per coloro che ignorano il predicato ed il soggetto della proposizione. E così accade, come nota Boezio, che alcuni concetti sono comuni ed evidenti solo per i dotti, questo, p. es.: "le cose immateriali non occupano uno spazio".
Dico dunque che questa proposizione Dio esiste in se stessa è di per sé evidente, perché il predicato s'identifica col soggetto; Dio infatti, come vedremo in seguito, è il suo stesso essere: ma siccome noi ignoriamo l'essenza di Dio, per noi non è evidente, ma necessita di essere dimostrata per mezzo di quelle cose che sono a noi più note, ancorché di per sé siano meno evidenti, cioè mediante gli effetti.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ:

1. È vero che noi abbiamo da natura una conoscenza generale e confusa dell'esistenza di Dio, in quanto cioè Dio è la felicità dell'uomo; perché l'uomo desidera naturalmente la felicità, e quel che naturalmente desidera, anche naturalmente conosce. Ma questo non è propriamente un conoscere che Dio esiste, come non è conoscere Pietro il vedere che qualcuno viene, sebbene chi viene sia proprio Pietro: molti infatti pensano che il bene perfetto dell'uomo, la felicità, consista nelle ricchezze, altri nei piaceri, altri in qualche altra cosa.

2. Può anche darsi che colui che sente questa parola Dio non capisca che si vuol significare con essa un essere di cui non si può pensare il maggiore, dal momento che alcuni hanno creduto che Dio fosse corpo. Ma dato pure che tutti col termine Dio intendano significare quello che si dice, cioè un essere di cui non si può pensare il maggiore, da ciò non segue però la persuasione che l'essere espresso da tale nome esista nella realtà delle cose; ma soltanto nella percezione dell'intelletto. Né si può arguire che esista nella realtà se prima non si ammette che nella realtà vi è una cosa di cui non si può pensare una maggiore: ciò che non si concede da coloro che dicono che Dio non esiste.

3. Che esista la verità in generale è di per sé evidente; ma che vi sia una prima Verità non è per noi altrettanto evidente.

Se sia dimostrabile che Dio esiste

SEMBRA non sia dimostrabile che Dio esiste. Infatti:


1. Che Dio esista è un articolo di fede. Ora, le cose di fede non si possono dimostrare, perché la dimostrazione ingenera la scienza, mentre la fede è soltanto delle cose non evidenti, come assicura l'Apostolo. Dunque non si può dimostrare che Dio esiste.

2. Il termine medio di una dimostrazione si desume dalla natura del soggetto. Ora, di Dio noi non possiamo sapere quello che è, ma solo quello che non è, come nota il Damasceno. Dunque non possiamo dimostrare che Dio esiste.

3. Se si potesse dimostrare che Dio esiste, ciò non sarebbe che mediante i suoi effetti. Ma questi effetti non sono a lui proporzionati, essendo egli infinito, ed essi finiti; infatti tra il finito e l'infinito non vi è proporzione. Non potendosi allora dimostrare una causa mediante un effetto sproporzionato, ne segue che non si possa dimostrare l'esistenza di Dio.

IN CONTRARIO: Dice l'Apostolo: "le perfezioni invisibili di Dio comprendendosi dalle cose fatte, si rendono visibili", Ora, questo non avverrebbe, se mediante le cose create non si potesse dimostrare l'esistenza di Dio; poiché la prima cosa che bisogna conoscere intorno ad un dato soggetto è se esso esista.

RISPONDO: Vi è una duplice dimostrazione: L'una, procede dalla (cognizione della) causa, ed è chiamata propter quid, e questa muove da ciò che di suo ha una priorità ontologica. L'altra, parte dagli effetti ed è chiamata dimostrazione quia, e muove da cose che hanno una priorità soltanto rispetto a noi: ogni volta che un effetto ci è più noto della sua causa, ci serviamo di esso per conoscere la causa. Da qualunque effetto poi si può dimostrare l'esistenza della sua causa (purché gli effetti siano per noi più noti della causa); perché dipendendo ogni effetto dalla sua causa, posto l'effetto è necessario che preesista la causa. Dunque l'esistenza di Dio, non essendo rispetto a noi evidente, si può dimostrare per mezzo degli effetti da noi conosciuti.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ:

1. L'esistenza di Dio ed altre verità che riguardo a Dio si possono conoscere con la ragione naturale, non sono, al dire di S. Paolo, articoli di fede, ma preliminari agli articoli di fede: difatti la fede presuppone la cognizione naturale, come la grazia presuppone la natura, come (in generale) la perfezione presuppone il perfettibile. Però nulla impedisce che una cosa, la quale è di suo oggetto di dimostrazione e di scienza, sia accettata come oggetto di fede da chi non arriva a capirne la dimostrazione.

2. Quando si vuol dimostrare una causa mediante l'effetto, è necessario servirsi dell'effetto in luogo della definizione (o natura) della causa, per dimostrare che questa esiste; e ciò vale specialmente nei riguardi di Dio. Per provare infatti che una cosa esiste, è necessario prendere per termine medio la sua definizione nominale, non già la definizione reale, poiché la questione riguardo all'essenza di una cosa viene dopo quella riguardante la sua esistenza. Ora, i nomi di Dio provengono dai suoi effetti, come vedremo in seguito: perciò nel dimostrare l'esistenza di Dio mediante gli effetti, possiamo prendere per termine medio quello che significa il nome Dio.

3. Da effetti non proporzionati alla causa non si può avere di questa una cognizione perfetta; tuttavia da qualsiasi effetto noi possiamo avere manifestamente la dimostrazione che la causa esiste, come si è detto. E così dagli effetti di Dio si può dimostrare che Dio esiste, sebbene non si possa avere per mezzo di essi una conoscenza perfetta della di lui essenza.



ARTICOLO 3

Se Dio esista

SEMBRA che Dio non esista. Infatti:

1. Se di due contrari uno è infinito, l'altro resta completamente distrutto. Ora, nel nome Dio s'intende affermato un bene infinito. Dunque, se Dio esistesse, non dovrebbe esserci più il male. Viceversa nel mondo c'è il male. Dunque Dio non esiste.

2. Ciò che può essere compiuto da un ristretto numero di cause, non si vede perché debba compiersi da cause più numerose. Ora tutti i fenomeni che avvengono nel mondo, potrebbero essere prodotti da altre cause, nella supposizione che Dio non esistesse: poiché quelli naturali si riportano, come a loro principio, alla natura, quelli volontari, alla ragione o volontà umana. Nessuna necessità, quindi, dell'esistenza di Dio.

IN CONTRARIO: Nell'Esodo si dice, in persona di Dio: "Io sono Colui che è".

RISPONDO: Che Dio esista si può provare per cinque vie.

La prima e la più evidente è quella che si desume dal moto. È certo infatti e consta dai sensi, che in questo mondo alcune cose si muovono. Ora, tutto ciò che si muove è mosso da un altro. Infatti, niente si trasmuta che non sia potenziale rispetto al termine del movimento; mentre chi muove, muove in quanto è in atto. Perché muovere non altro significa che trarre qualche cosa dalla potenza all'atto; e niente può essere ridotto dalla potenza all'atto se non mediante un essere che è già in atto. P. es., il fuoco che è caldo attualmente rende caldo in atto il legno, che era caldo soltanto potenzialmente, e così lo muove e lo altera. Ma non è possibile che una stessa cosa sia simultaneamente e sotto lo stesso aspetto in atto ed in potenza: lo può essere soltanto sotto diversi rapporti: così ciò che è caldo in atto non può essere insieme caldo in potenza, ma è insieme freddo in potenza. È dunque impossibile che sotto il medesimo aspetto una cosa sia al tempo stesso movente e mossa, cioè che muova se stessa. È dunque necessario che tutto ciò che si muove sia mosso da un altro. Se dunque l'essere che muove è anch'esso soggetto a movimento, bisogna che sia mosso da un altro, e questo da un terzo e così via. Ora, non si può in tal modo procedere all'infinito, perché altrimenti non vi sarebbe un primo motore, e di conseguenza nessun altro motore, perché i motori intermedi non muovono se non in quanto sono mossi dal primo motore, come il bastone non muove se non in quanto è mosso dalla mano. Dunque è necessario arrivare ad un primo motore che non sia mosso da altri; e tutti riconoscono che esso è Dio.

La seconda via parte dalla nozione di causa efficiente. Troviamo nel mondo sensibile che vi è un ordine tra le cause efficienti, ma non si trova, ed è impossibile, che una cosa sia causa efficiente di se medesima; ché altrimenti sarebbe prima di se stessa, cosa inconcepibile. Ora, un processo all'infinito nelle cause efficienti è assurdo. Perché in tutte le cause efficienti concatenate la prima è causa dell'intermedia, e l'intermedia è causa dell'ultima, siano molte le intermedie o una sola; ora, eliminata la causa è tolto anche l'effetto: se dunque nell'ordine delle cause efficienti non vi fosse una prima causa, non vi sarebbe neppure l'ultima, né l'intermedia. Ma procedere all'infinito nelle cause efficienti equivale ad eliminare la prima causa efficiente; e così non avremo neppure l'effetto ultimo, né le cause intermedie: ciò che evidentemente è falso. Dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente, che tutti chiamano Dio.

La terza via è presa dal possibile (o contingente) e dal necessario, ed è questa. Tra le cose noi ne troviamo di quelle che possono essere e non essere; infatti alcune cose nascono e finiscono, il che vuol dire che possono essere e non essere. Ora, è impossibile che tutte le cose di tal natura siano sempre state, perché ciò che può non essere, un tempo non esisteva. Se dunque tutte le cose (esistenti in natura sono tali che) possono non esistere, in un dato momento niente ci fu nella realtà. Ma se questo è vero, anche ora non esisterebbe niente, perché ciò che non esiste, non comincia ad esistere se non per qualche cosa che è. Dunque, se non c'era ente alcuno, è impossibile che qualche cosa cominciasse ad esistere, e così anche ora non ci sarebbe niente, il che è evidentemente falso. Dunque non tutti gli esseri sono contingenti, ma bisogna che nella realtà vi sia qualche cosa di necessario. Ora, tutto ciò che è necessario, o ha la causa della sua necessità in altro essere oppure no. D'altra parte, negli enti necessari che hanno altrove la causa della loro necessità, non si può procedere all'infinito, come neppure nelle cause efficienti secondo che si è dimostrato. Dunque bisogna concludere all'esistenza di un essere che sia di per sé necessario, e non tragga da altri la propria necessità, ma sia causa di necessità agli altri. E questo tutti dicono Dio.

La quarta via si prende dai gradi che si riscontrano nelle cose. È un fatto che nelle cose si trova il bene, il vero, il nobile e altre simili perfezioni in un grado maggiore o minore. Ma il grado maggiore o minore si attribuisce alle diverse cose secondo che esse si accostano di più o di meno ad alcunché di sommo e di assoluto; così più caldo è ciò che maggiormente si accosta al sommamente caldo. Vi è dunque un qualche cosa che è vero al sommo, ottimo e nobilissimo, e di conseguenza qualche cosa che è il supremo ente; perché, come dice Aristotele, ciò che è massimo in quanto vero, è tale anche in quanto ente. Ora, ciò che è massimo in un dato genere, è causa di tutti gli appartenenti a quel genere, come il fuoco, caldo al massimo, è cagione di ogni calore, come dice il medesimo Aristotele. Dunque vi è qualche cosa che per tutti gli enti è causa dell'essere, della bontà e di qualsiasi perfezione. E questo chiamiamo Dio.

La quinta via si desume dal governo delle cose. Noi vediamo che alcune cose, le quali sono prive di conoscenza, cioè i corpi fisici, operano per un fine, come appare dal fatto che esse operano sempre o quasi sempre allo stesso modo per conseguire la perfezione: donde appare che non a caso, ma per una predisposizione raggiungono il loro fine. Ora, ciò che è privo d'intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo e intelligente, come la freccia dall'arciere. Vi è dunque un qualche essere intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono ordinate a un fine: e quest'essere chiamiamo Dio.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ:

1. Come dice S. Agostino: "Dio, essendo sommamente buono, non permetterebbe in nessun modo che nelle sue opere ci fosse del male, se non fosse tanto potente e tanto buono, da saper trarre il bene anche dal male". Sicché appartiene all'infinita bontà di Dio il permettere che vi siano dei mali per trarne dei beni.

2. Certo, la natura ha le sue operazioni, ma siccome le compie per un fine determinato sotto la direzione di un agente superiore, è necessario che siano attribuite anche a Dio, come a loro prima causa. Similmente gli atti del libero arbitrio devono essere ricondotti ad una causa più alta della ragione e della volontà umana, perché queste sono mutevoli e defettibili, e tutto ciò che è mutevole e tutto ciò che può venir meno, deve essere ricondotto a una causa prima immutabile e di per sé necessaria, come si è dimostrato.



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Discendiamo all'inferno fin che siamo vivi (cioè riflettendo su questa terribile realtà) - diceva Sant'Agostino - per non precipitarvi dopo la morte".
nell'aldilà

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Caro Konnery,

E' chiaro che non hai capito la sottile ironia del mio messaggio.

E' inutile riportare dei copia incolla, come sopra, che non dicono quasi nulla.

Prova ad esprimerti con la tua testa, se no, non riusciremo mai a confrontare i nostri pensieri.

Un Caro Saluto
Pino

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Jon Jon

I Tuoi rappresentanti,
I Tuoi Capi,
Coloro che ti hanno inculcato e continuano a inculcarti
questi tuoi argomenti basati sul nulla, sull'indimostrabilità e sull'ignoranza.

SONO i primi a non credere in dio e i primi che hanno capito come arricchirsi
(tramite favola), alle spalle di fanatici ignoranti.

Leggi il pensiero di  un Prete.... Vero.


L'ULTIMA CENA:



Cena alla carbonara per la diabolica alleanza massonica

- di Paolo Farinella, prete







E’ tutto vero. Tanto è vero che sembra incredibile. Giovedì 8 luglio, nel giorno più caldo dell’estate, in casa di Bruno Vespa il servo per tutte le stagioni, si radunano per la «santa cena», un manipolo di massoni e fratelli di potere: Tarcisio Bertone, segretario di Stato di Benedetto XVI, in questo momento fuori servizio a Castelgandolfo, Silvio Berlusconi e il suo prosseneta nonché «gentiluomo di Sua Santità», Gianni Letta, Cesare Geronzi, il cui solo nome è una garanzia di malaffare e il Pierferdi Casini, cristiano di acciaio inossidabile e cattolico col marchio «Fisichella», e il governatore della Banca d’Italia. Mario Draghi.

 

Nel 150° anniversario dell’unità d’Italia, torna la massoneria a riunirsi non più nelle bettole e nelle cantine, in mezzo al carbone, ma nel tinello del «servo dei servi», sua schiavitù Vespa Bruno, sempre pronto col grembiulino da quaquaraqua a servir portate di indecenza e di indegnità. Il Promettitore di tutto a tutti vede che si sta sgretolando il consenso perché stanno emergendo il vuoto primordiale e il nulla del suo governo, accompagnati da un rosario di corruttele e di «cricche» di cui non si vede la fine perché siamo solo alle sorgenti.

 

Un bel rinfrescante estivo ci voleva proprio con gli ingredienti giusti a dosi uguali: Vaticano, governo, anzi Berlusconi, P2, massoneria, finanza (alla Geronzi), e tutto innaffiato dall’oste Casini che alla fine presenta il conto e alza sulle mance. Bello, un sacco bello per l’Italia decotta. Casini stava prima con Forlani che finì a sbavare davanti al giudice che lo accusava di essere ladro e tangentaro; poi passò con Berlusconi e per cinque anni lo appoggiò in ogni lordura, pur di avere la presidenza della Camera; poi si smarcò da lui per riprendersi la sua autonomia e giurando che mai sarebbe ritornato con il Berlusconi; poi si allea con Fini per fare lo sgambetto al governo del padrone; poi ritorna a Canossa perché, figlio, è dura stare lontano dalle poltrone e dal potere, ma visto che ci siamo chiediamo il massimo: vicepresidenza del consiglio dei ministri, ministero degli esteri e delle infrastrutture e qualche centinaio di posti economici che contano, di quelli, per intenderci «arraffa-arraffa». Staremo a vedere. E l’impegno con Fini? Ecchisenefrega? Limpido come l’olio adulterato.

 

Resta una domanda: in questo covo di sciacalli, di corrotti, di uomini senza principi e senza morale, responsabili del degrado della nazione, gestiti da un capo del governo immorale «a planta pedis usque ad verticem capitis», indegno, bugiardo e destabilizzatore, cosa ci fa il cardinale segretario di Stato, l’eminez Tarcisio Bertone seduto a cena con questi piduisti e massoni? Non c’è via di mezzo: o lo è anche lui come loro o lì non deve stare. In nome di quale competenza e autorità discute di rimpasto e/o scioglimento di governo? Si è mosso all’insaputa del papa? MI pare strana la cosa perché il segretario di Stato rappresenta sempre il papa.

 

Ciò vuol dire che il papa è «informato dei fatti»? e condivide, che ha mandato cosciente e consapevole il segretario di Stato? Con quale mandato? Salvare Berlusconi dalla caduta e farlo risorgere, costi quel costi, in nome dei sani e santi «principi non negoziabili» come lo spergiuro, la falsità come metodo di governo, la corruzione come sistema di cooptazione, la collusione con la malavita organizzata come scopo di governo, rapporti di natura sessuale con minorenni o «dame bianche» portate al seguito presidenziale in veste ufficiale? Oppure in nome dei principi etici e del «bene comune» per cui si mandano nei parlamenti donnine compiacenti e gentili con un essere laido che non ha il minimo senso etico né privato né pubblico?

 

Il papa, e a ruota, il segretario di Stato, il presidente della Cei, ad ogni occasione ribadiscono sempre ché «la chiesa non si occupa di politica e non ha soluzioni tecniche da offrire» perché è sempre «super partes». Ciò significa che il papa e il suoi dipendenti non riescono a coniugare contemporaneamente i verbi «predicare» e «razzolarare». Se un Bertone qualsiasi può andare a cena da Vespa con simile compagnia, significa che lui e chi rappresenta non hanno alcuna autorità morale di parlare in nome del Vangelo e tanto meno di Dio, il quale li aveva già avvertiti 25 secoli oro sono:  «Guai a voi, pastori …Per colpa del pastore si sono disperse e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate … Eccomi contro i pastori: a loro chiederò conto del mio gregge, ma strapperò loro di bocca le mie pecore e non saranno più il loro pasto» (Ez 34,5-10).

In occasione degli auguri natalizi, il 21 dicembre 2009, parlando alla Curia romana, lo stesso Benedetto XVI ha detto che è ricorrente per la Chiesa e i vescovi «la tentazione di fare politica», cioè di «cedere alla tentazione di prendere personalmente in mano la politica e da pastori trasformarsi in guide politiche». Come si conciliano queste parole con la presenza di Bertone alla cena alla bettola «da Vespa» perché per conto di Berlusconi convincesse Casini ad entrare nel governo?

La Chiesa di Cristo è degradata ad una conventicola di farabutti e di mercanti senza scrupoli che lo stesso Cristo vomita perché della Sposa di Cristo hanno fatto una meretrice da bordello. Al segretario di Stato, «arbiter elegantiarum», le parola di S. Antonio da Padova: «Che cosa dirò degli effeminati prelati del nostro tempo, che si agghindano come donne destinate alle nozze, si rivestono di pelli varie (Sermone Annunciazione 3,14) [i prelati] sono donna, in lat. mulier, perché… molli, effeminati e corrotti, si presentano per denaro nei tribunali e nelle curie, come le prostitute (Sermone X Domenica dopo Pentecoste 1,9)  ... i prelati corrotti… non c’è in essi alcuna forma di virtù, non c’è onestà di costumi, ma solo marciume di peccati … questi indegni prelati della Chiesa non hanno alcuna energia nella mente, non essendo capaci di resistere alle tentazioni del diavolo: ma tutta la forza l’hanno nelle braccia e nei fianchi, forza di rapina e di lussuria» (Sermone IV Domenica Pentecoste. 3,14) [testi in Sant’Antonio da Padova, I Sermoni, Messaggero di Sant’Antonio Editrice, Padova 20054, pp. 1093, 579, 459].



PERSONALE:
Spedisco in anticipo, perché mio fratello Salvatore (65 anni) che vive a Castelsardo, è ormai in coma, e sta morendo:  io sono in procinto di partire (martedì 11 luglio sera), dopo la Messa di anniversario del notaio Emanuele Clavarino. Affido alla preghiera di chi crede e alla simpatia di chi non crede un uomo buono, gran lavoratore e con una vita provata e senza sconti. Un giusto.

Paolo Farinella, prete


Caro Paolo,

ricevo e pubblico questo tuo scritto solo ora, perchè per dieci giorni non ho aperto la posta. Apprendo quindi solo ora di tuo fratello. Ti sono "impotentemente vicino". Un abbraccio. Antonio

 

http://iltafano.typepad.com/
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RE x Konnery

Decisamente pagherai una bolletta telefonica enorme per tutte le volte che comunichi con Dio per propinarci i tuoi vocabolari!!!
[SM=x1061941] [SM=x1061942] [SM=x1061946]

omega [SM=x1061927]



O=============O===========O

Se la vita ti sorride,ha una paresi.(Paco D'Alcatraz)

Il sonno della ragione genera mostri. (Goya)

Apocalisse Laica

Querdenker evangelico anticonvenzionale del 1° secolo. "Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam!" g.b.--In nece renascor integer ./Satis sunt mihi pauci,satis est unus,satis est nullus. Seneca-Ep.VII,11


Vivo fra lo Stato Sovrano della Fica e la Repubblica Popolare del Cazzo
24/07/2010 20:52
 
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Re: RE x Konnery
caro Konnery,

mi piaci di più quando parli come mangi.

Sono ormai migliaia d'anni che si discute sull'esistenza o meno di Dio
tant'è che il saperlo non ha oggi più alcuna importanza:
ciò che conta veramente è il non imporre mai, ad alcuno, il proprio credo, nè con la violenza fisica nè psicologica.

la libertà di ogni individuo termina quando inizia l'altrui.
[SM=g1660863]
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