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La preghiera che Papi B dovrebbe recitare tutte le sere. Tratta da: Il partito dell'amore

Ultimo Aggiornamento: 02/01/2010 16:13
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Ateo, se ci sei batti un colpo


«Oggi potremmo definire l'ateo secondo due tipologie» spiega Ravasi. «La prima è la più diffusa: l'indifferente. Colui che più che rispondere alle grandi domande le ignora.
L'indifferente vive alla superficie, l'assillo del senso dell'essere non lo sfiora, la consapevolezza del suo disinteresse è insapore e incolore come il modo con il quale pensa se stesso davanti al mondo.
L'indifferente è il tipo più ovvio e comune, e anche il prodotto di un modo di vivere che ha nel pensiero unico del modello televisivo il principale punto di riferimento. Più interessante, invece, è la seconda tipologia di ateo: l'uomo della sfida. L'uomo che si interroga sul senso dell'essere, ne esplora il mistero e, non riuscendo a scorgervi il divino ma il vuoto, decide di trovare le risposte dentro di sé. È colui che si sforza di essere morale senza affidarsi a un principio trascendente.

È l'ateo la cui interiorità inquieta è segnata da quella che un teologo del secolo scorso esprimeva in una definizione tragica: "torsione dell'essere". La tensione verso l'infinito dove non c'è pace a causa del silenzio di Dio».

Secondo Ravasi, un nome in particolare rappresenta l'ateo della sfida: il francese Albert Camus.
Premio Nobel per la letteratura nel 1957, è lo scrittore della rivolta contro il dolore innocente. Nella Peste, romanzo che racconta la sofferenza degli esseri umani falcidiati dalla malattia, il dottor Rieux, che lotta ogni giorno per sottrarli alla morte, è indignato dalla predica fatta in chiesa da padre Paneloux, il sacerdote che spiega il male alla luce della Provvidenza divina.

Secondo lui il dolore ha un senso: serve a redimere il mondo secondo il progetto imperscrutabile del Creatore, e Dio lo permette perché rientra nel piano provvidenziale della sua creazione.
«Dobbiamo amare quello che non possiamo capire» dice un giorno il sacerdote a Rieux.
Al che il medico risponde quasi con sdegno: «No padre, io mi rifiuterò fino alla morte di amare questa creazione in cui i bimbi sono torturati».

Il rifiuto di Dio a causa del dolore del mondo. È la posizione di Ivan de «I fratelli Karamazov» di Fëdor Dostoevskij. «Se tutti devono soffrire per comprare con la sofferenza l'armonia eterna, che cosa c'entrano i bambini?» chiede Ivan al fratello Alioscia. «Questa armonia non vale nemmeno una lacrima di un solo bambino».

È l'interrogativo che nell'immediato dopoguerra, dopo l'Olocausto, affronta il filosofo ebreo Hans Jonas nel saggio Il concetto di Dio dopo Auschwitz. È il progetto di resistenza al male senza Dio. È l'inquietudine che serpeggia nel cinema di Ingmar Bergman e nel teatro dell'assurdo. È l'ateismo che lascia il segno e che fa male. Perché gli interrogativi che pone sono laceranti.
Basta il peccato di Adamo a giustificare l'urlo agghiacciante della sofferenza che si leva ogni giorno da ogni angolo del mondo?
E com'è possibile assistere impotenti allo strazio di un bambino torturato da un male incurabile e continuare a pensare al Dio che tace come al Padre «buono e onnipotente» che «ci ha scelti» come recita il testo biblico «prima della creazione del mondo»? Onnipotenza e bontà.
Come tenere insieme le due nozioni, nello spiegare il rapporto fra il Dio creatore e il male cosmico presente nella creazione?

È questo l'ateismo inquieto di cui parla Ravasi. Addolorato dall'assenza di Dio, meno supponente di quello scientista, sostenitore di un umanesimo aperto al dialogo con i credenti.
«Nel compilare un libro con le più belle preghiere raccolte dalle varie tradizioni religiose» conclude Ravasi «ho inserito anche alcune Preghiere dell'ateo come quella del russo Zinov'ev: o Dio, ti chiedo di esistere, esisti almeno un po', perché guai a una vita che sia senza testimoni».



FONTE


[SM=g1380307]




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