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Rivoluzione francese, schiavitu' e razzismo

Ultimo Aggiornamento: 17/03/2007 20:21
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La rivoluzione francese e il problema della schiavitù e della discriminazione razziale

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

La Rivoluzione Francese abolì la discriminazione razziale e la schiavitù nelle colonie rispettivamente il 28 marzo del 1792 e il 4 febbraio del 1794.

Erano conseguenze della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino, ma il percorso per giungervi non fu semplice. A ciò si opponevano interessi consolidati ed influenti, che finiranno per prevalere di nuovo durante il consolato di Napoleone (10 maggio 1802: ripristino della schiavitù).

La serie delle posizioni che emersero su questi argomenti nel dibattito e nell’attività legislativa francese degli anni della rivoluzione non si comprende senza alcune notizie essenziali sulle colonie e sugli eventi che si svolsero in esse.

Le colonie francesi
All’epoca della Rivoluzione la Francia possedeva diverse colonie. Tra queste erano particolarmente importanti i possedimenti nelle Antille: le isole della Martinica e della Guadalupa e soprattutto la parte occidentale della grande isola di Haiti (o Saint-Domingue)[1]. In quest’ultima colonia era presente una popolazione di oltre mezzo milione di abitanti, suddivisi come segue:

500.000 c/a schiavi neri, sfruttati nelle piantagioni di canna da zucchero, caffè, tabacco e cotone,
28.000 tra meticci e schiavi neri affrancati,
31.000 bianchi, in maggior parte di origine francese.
La tratta era consentita e annualmente erano venduti nell’isola circa 20.000 schiavi.
Lo schema della stratificazione sociale e razziale nelle colonie francesi era il seguente:

al vertice stava il gruppo dei planteurs, i proprietari bianchi delle piantagioni (alcuni tra i più ricchi, però, risiedevo in Francia e gestivano le terre tramite amministratori),
seguito dai bianchi poveri (petits blancs), appartenenti alla classe medio-bassa; il loro orgoglio di razza, alimentato anche da risentimento e invidia, li rendeva ostili ai
meticci (gens de coleur). Figli o discendenti di proprietari bianchi e delle loro schiave, erano di solito superiori ai “petits blancs” in ricchezza e istruzione. Subivano, però, una serie di discriminazioni (per es. in termini di esclusione dalle cariche pubbliche e da determinate professioni). Parecchi di loro erano proprietari di terre e di schiavi. Nei confronti degli schiavi, in genere, non avevano un atteggiamento diverso da quello dei bianchi.
Era presente anche un ristretto numero di ex schiavi neri che avevano a vario titolo ottenuto la libertà.
Alla base c’era la stragrande maggioranza della popolazione nera, in condizioni durissime di schiavitù.

Una società violenta
Nella società coloniale erano presenti, tra i grandi piantatori, tendenze indipendentiste. Le colonie erano infatti legate alla madrepatria da vincoli commerciali molto rigidi: non potevano vendere i loro prodotti, né acquistare liberamente manufatti su mercati diversi da quello francese. Per certi versi la situazione era simile a quella delle colonie del Nord America alla vigilia della guerra di indipendenza. Il peso dell’economia schiavistica nella vita delle colonie francesi era, però, molto superiore che nel Nord America (dove pure era rilevante). La proporzione tra il numero dei liberi e degli schiavi che si ricava dai dati sopra riportati è significativa.

Si trattava di una società caratterizzata da un immenso ammontare di violenza, a partire dalla tratta fino alle condizioni di lavoro degli schiavi ed alla disciplina imposta loro tramite punizioni (frustate, mutilazioni…) di impressionante brutalità. Per un padrone che voleva infliggere una punizione esemplare, la vita di uno schiavo valeva molto poco.

Dati questi presupposti, si capisce come i gruppi sociali dominanti nelle colonie non fossero disposti ad accettare passivamente gli ordini provenienti dai molti legislatori che si succedettero negli anni della Rivoluzione; e come inizialmente il ceto dei “piantatori” rivendicasse soprattutto la gestione autonoma degli affari interni alle colonie.

La Rivoluzione Francese, come tutti sanno, si realizzò come clima di continua innovazione politica e legislativa, di possibilità aperte e di incertezze. Ciò acuì le conflittualità proprie della società coloniale. È comprensibile che nelle colonie esplodessero scontri difficilmente gestibili dalla madrepatria, ma capaci di influenzarne le scelte legislative.

Abolizionisti e schiavisti
Alla vigilia della Rivoluzione erano attive in Francia due associazioni che esprimevano vedute e interessi opposti riguardo alla schiavitù nelle colonie.

La Société des Amis des Noirs, fondata nel febbraio 1788, contava tra i suoi aderenti l’abbé Grégoire, La Fayette, Mirabeau, Sonthonax, Brissot e il Marchese di Condorcet.
Si proponevano come scopo ultimo l’abolizione della schiavitù, ma ritenevano che si dovesse procedere per gradi: prima dell’emancipazione prospettavano un miglioramento delle condizioni di vita degli schiavi, che li avrebbe dovuti preparare all’ingresso da liberi nella società civile. Lo scopo più immediato era l’abolizione della tratta.

Nemici della tratta e dello schiavismo, gli Amis des Noirs non erano, però, contrari al possesso di colonie [2].

Per un chiarimento sulle loro posizioni vedi anche il passo dalle Memorie di Grégoire riportato più avanti.

Sul versante opposto agiva una lobby schiavista, i cui esponenti si riunivano all’Hotel Massiac. Era guidata da Moreau de Saint-Mery, un piantatore della Martinica, e contava tra i suoi sostenitori politici soprattutto Barnave (esponente di spicco dell’Assemblea Nazionale Costituente e fondatore del club dei Foglianti).

L’Assemblea Nazionale Costituente (9 luglio 1789 – 30 settembre 1791)
I rappresentanti schiavisti delle colonie parteciparono al Giuramento della Pallacorda.

La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, nel suo carattere universalistico, avrebbe dovuto implicare l’abolizione della schiavitù e di ogni differenza basata sulla razza, ma in realtà il processo con cui se ne trassero le conseguenze fu accidentato e combattuto.

Il problema dell’uguaglianza di tutti gli uomini liberi e quello dell’abolizione della schiavitù furono affrontati in fasi successive della Rivoluzione.

Per gli abolizionisti la soluzione della prima delle due questioni avrebbe aperto la strada per affrontare con successo la seconda, ma in effetti si trattava di due istanze distinte.

Proclamare l’eguaglianza dei diritti civili per i non-bianchi liberi non avrebbe cambiato la struttura schiavistica della società coloniale, anzi – da un certo lato – avrebbe potuto renderla più sicura e stabile, rinforzando e compattando lo strato intermedio di liberi interessati al mantenimento dello status quo.

D’altro canto, però, l’affermazione di diritti per i cittadini liberi di colore o neri avrebbe messo in questione quella separazione razziale sulla quale si fondava la presunta “legittimazione” della schiavitù.

L’atteggiamento della lobby schiavista si chiarì gradualmente: inizialmente non si oppose alla proclamazione dei diritti di tutti gli uomini liberi, pur avversando l’esplicita menzione della parità delle razze nella legislazione; nel corso del dibattito successivo giunse – però – ad enunciare apertamente il principio della disparità delle razze e il rifiuto dell’uguaglianza per i liberi di colore[3].

Un decreto che stabiliva l’eguaglianza dei diritti dei cittadini (ossia dei “liberi”) senza menzionare le differenze di razza venne inviato alle colonie in data 8 marzo 1790.

I piantatori riuscirono, però, ad ottenere, su iniziativa di Barnave, l’attribuzione alle colonie dell’autonomia legislativa.

Le assemblee coloniali decretarono, di conseguenza, la restrizione dei diritti politici alla sola popolazione bianca.

I liberi di colore reagirono: costituitisi in una Société des Colons americains, inviarono una delegazione all’Assemblea. Il loro rappresentante Joly si espresse come segue:

«Gli uomini di colore sono uomini liberi e cittadini francesi […] Non chiediamo un favore, ma reclamiamo l’applicazione dei diritti dell’uomo e del cittadino […] Ci si chiede con che diritto ventitremila bianchi abbiano escluso [dai diritti politici] un eguale numero di uomini di colore, che sono, come loro, liberi, proprietari e contribuenti[4]»

Seguì la prova di forza di Vincent Ogé, un giovane e facoltoso proprietario di colore, che aveva fatto parte della delegazione. Rientrato a Saint-Domingue, aveva costituito una banda armata e cercato di imporre all’Assemblea Coloniale il decreto dell’8 marzo. Venne sconfitto, catturato e condannato a morte (ottobre 1790); la condanna venne eseguita, per di più, in modo oltraggioso e crudele (supplizio della ruota e squartamento).

Il caso Ogé suscitò indignazione a Parigi e ne seguì un nuovo dibattito alla Costituente sulla discriminante razziale (7-15 maggio 1791). Lo scontro ebbe come protagonisti da una parte Moreau de Saint-Mery, Barnave e l’abbé Maury (sostenitori della restrizione dei diritti politici su basi razziali) e dall’altra l’abbé Grégoire, Pétion e Robespierre (contrari).

La soluzione (15 maggio 1791) fu un compromesso deludente: si affermò che i diritti politici sarebbe spettati, tra gli uomini di colore, solo a quelli nati da entrambi genitori liberi – ma in tale condizione si trovava appena il 6% dei soggetti potenzialmente interessati. Nuovi malcontenti ed agitazioni nelle colonie: i liberi di colore si sentirono umiliati, ma anche la massima parte dei bianchi non accettò la (pur limitatissima) equiparazione, e ne seguirono disordini.

A questo punto, però, accadde un evento di ben maggiori dimensioni. Il 21 agosto 1791, a Saint-Domingue, scoppiò una rivolta di schiavi che dilagò con violenza nelle piantagioni del Nord dell’isola. Si calcolano in più di un migliaio, solo per questa prima fase, le vittime tra i piantatori bianchi e le loro famiglie.

Prendendo spunto da ciò, il 24 settembre 1791, Barnave riprese la difesa della discriminazione razziale[5], e riuscì a far approvare alla Costituente un decreto che demandava nuovamente alle assemblee coloniali la questione dello statuto degli uomini di colore, annullando così anche il compromesso del 15 maggio.

L’Assemblea Legislativa (1 ottobre 1791 – 20 settembre 1792)
Nell’Assemblea Legislativa cambiò finalmente l’orientamento sulla questione razziale. Soprattutto grazie alla battaglia ingaggiata da Brissot e dai girondini, il 28 marzo del 1792 venne decretato che «gli uomini di colore e i neri liberi devono godere, allo stesso titolo dei coloni bianchi, dell’eguaglianza dei diritti politici».

Per ottenere il consenso della maggioranza parlamentare i Girondini avevano dovuto ricorrere non tanto al principio dell’eguaglianza umana, quanto all’argomentazione di tipo utilitario già menzionata: una società come quella coloniale sarebbe stata più stabile e pacifica se fra la massa degli schiavi neri ed i proprietari bianchi si fosse consolidata la classe media dei liberi di colore.

Mirando all’abolizione della schiavitù avevano – in altre parole – dovuto far leva sulle paure[6] e sugli interessi di chi voleva mantenerla. È facile capire come i recenti drammatici eventi potessero rendere efficace tale argomentazione.

La situazione nelle colonie rimaneva instabile.
La rivolta degli schiavi era stata contenuta, ma non sedata: le truppe inviate dalla Francia non erano in numero sufficiente per affrontare una simile situazione, e le campagna della parte Nord di Saint-Domingue era sotto il controllo dei ribelli. I rapporti fra le diverse componenti della popolazione libera (bianca e di colore) erano oscillanti, ma infine prevaleva la consueta inimicizia.

A questo punto l’Assemblea Legislativa prese una nuova iniziativa: inviò a Saint-Domingue, con delle truppe, una commissione che avrebbe dovuto:

imporre l’attuazione del decreto del 28 marzo ai bianchi riluttanti,
sedare la rivolta degli schiavi,
bloccare le tendenze indipendentiste dei coloni.
Era a capo della commissione L.-F. Sonthonax, abile negoziatore ed esponente della società degli Amis des Noirs. Giunse nell’isola il 18 settembre 1792.

II fase: l’abolizione della schiavitù

La Convenzione Nazionale (21 settembre 1792 – 26 ottobre 1795)
Nel frattempo era stata dichiarata decaduta la Monarchia ed eletta la Convenzione Nazionale. Il fallimento del compromesso monarchico costituzionale aveva messo fuori gioco i gruppi moderati ed era dominante nella nuova assemblea la propensione portare i princìpi rivoluzionari alle loro più radicali conseguenze.

Nella fase repubblicana della Rivoluzione verrà, perciò, affrettato anche il processo di abolizione della schiavitù. Le motivazioni della svolta consistono però – come si vedrà – in una mescolanza di affermazioni di principio e di casuali accelerazioni dovute alla piega presa dall’intreccio degli eventi.

Sonthonax era prossimo ad ottenere i risultati per i quali era stato inviato, compresa la resa degli schiavi ribelli, quando la situazione si complicò nuovamente: con la dichiarazione di guerra alla Francia da parte di Inghilterra (febbraio 1793) e Spagna, le colonie (e soprattutto Saint-Domingue) divennero uno dei fronti di guerra con le due potenze nemiche.

Gli Spagnoli fornirono agli schiavi in rivolta armi e appoggio logistico nella parte dell’isola da loro controllata. Gli Inglesi erano in contatto con i coloni bianchi e si accordavano con loro per trasformare Saint-Domingue in colonia inglese. Un attacco straniero era da considerare imminente e non era possibile ricevere rinforzi da oltreoceano.

A questo punto Sonthonax comprese che l’unica mossa possibile era quella di guadagnare alla causa francese l’appoggio degli schiavi. Unilateralmente, il 23 agosto 1793, proclamò la liberazione di tutti gli schiavi haitiani.

«Sonthonax sembra essere stato spinto da tre motivi: la sincera credenza che i principi della Rivoluzione Francese non fossero compatibili con lo schiavismo né con alcuna forma di razzismo; il desiderio di far progredire la rivoluzione e di tenere Saint-Domingue sotto la bandiera rivoluzionaria; il calcolato progetto di portare sotto la bandiera francese gli schiavi liberati e di resistere all’invasione britannica dell’isola»
(B.Corbett)

Il successo non fu immediato: i capi degli schiavi ribelli continuarono a preferire l’appoggio spagnolo e a diffidare dei Francesi (sebbene fosse evidente che gli Spagnoli non avevano la minima intenzione di fare concessioni agli schiavi nella loro parte dell’isola). Sonthonax doveva ancora attendere.

Che cosa accadeva, nel mentre, a Parigi?

Circa un mese prima del proclama di Sonthonax, l’abbé Grégoire era riuscito a far approvare alla Convenzione una legge che aboliva la tratta degli schiavi (27 luglio 1793).

A fine Agosto, Sonthonax indisse l’elezione di tre rappresentanti della popolazione coloniale da inviare a Parigi, per sollecitare la ratifica dell’abolizione della schiavitù e la sua estensione a tutte le colonie francesi. La delegazione si presentò alla Convenzione il 3 febbraio del 1794. Era composta da Jean-Baptiste Belley (nero), Pierre Dufay (bianco) e J.-B. Mills (di colore).

Dopo i discorsi dei tre inviati, l’assemblea approvò finalmente, senza discussione, il decreto di abolizione della schiavitù in tutte le colonie francesi. Danton sottolineò il completamento, finalmente raggiunto, dell’universalità dei Diritti dell’Uomo: «Fino ad oggi avevamo decretato la libertà in modo egoistico, per noi soli; oggi proclamiamo la libertà universale» (4 febbraio 1794).

Tutto questo avvenne nel pieno della fase giacobina (o, più precisamente, montagnarda), della Rivoluzione. Il radicalismo dei Giacobini aveva permesso questo passo, per il quale c’era stato anche l’appoggio di diverse società rivoluzionarie popolari. Bisogna però ricordare che la causa dell’abolizionismo e del rifiuto delle discriminazioni di razza aveva avuto i suoi sostenitori di più lunga data nell’abbé Grégoire, ma anche in girondini come Brissot e Condorcet, che la dittatura del Comitato di salute pubblica aveva messo a morte.


[modifica] III fase: Toussaint Louverture e l’indipendenza di Haiti. Napoleone Bonaparte e il ristabilimento della schiavitù nelle colonie.

[modifica] Toussaint Louverture
Dalla rivolta degli schiavi di Saint-Domingue emerse una personalità di grande rilievo: François-Dominique-Toussaint, detto Toussaint Louverture. L’importanza storica di Toussaint consiste soprattutto nell’aver saputo trasformare una rivolta di schiavi in una rivoluzione, in un progetto politico.

Toussaint Louverture raffigurato in una stampa popolareNato schiavo nel 1743, ma affrancato nel 1776, Toussaint si era unito alle file dei rivoltosi dell’agosto 1791[7]: ben presto aveva acquistato su di loro un notevole ascendente, affiancando i capi della rivolta: Biassou e Jean-François, anch’essi ex schiavi. All’inizio del 1793 comandava una sua truppa.

In un primo tempo anche Toussaint accettò l’appoggio della Spagna, ma attorno al mese di maggio del 1794, dopo la ratifica da parte della Convenzione della liberazione degli schiavi, offrì il proprio aiuto alla Francia per respingere gli attacchi all’isola delle forze inglesi e spagnole.

Toussaint condusse con grande abilità la guerra contro gli Spagnoli, che – sconfitti dai Francesi in Europa – cedettero anche la parte orientale dell’isola (trattato del 22 luglio 1795). Toussaint ricevette il grado di generale di brigata. Uscita di scena la Spagna, le truppe di Biassou e di Jean-François si sbandarono e confluirono in gran parte sotto il comando di Toussaint.

I rapporti con l’amministrazione militare e civile francese si rafforzarono nel 1796, quando i due ufficiali Rigaud e Vallette, rappresentanti del ceto dei proprietari di colore che puntava alla leadership della colonia, tramarono contro il generale Laveux (comandante delle forze francesi). L’intervento di Toussaint e delle sue truppe salvò Laveux ed il controllo francese sull’isola. Dall’aprile di quell’anno Toussaint fu nominato luogotenente governatore.

A questo punto, però, divenne chiaro che Toussaint non mirava ad una mera politica di acquiescenza nei confronti delle autorità francesi. Egli riteneva che un futuro di libertà per gli ex schiavi neri sarebbe stato garantito solo in una condizione di autogoverno. Questa persuasione è la chiave di tutte le sue scelte.

Aveva ragione: nel giro di pochi anni sarebbe maturato il programma napoleonico di ristabilimento della schiavitù e già all’epoca del Direttorio stavano cambiando gli orientamenti prevalsi alla Convenzione in materia di schiavitù. Di fronte a tale ipotesi, nel ’97, Toussaint fu esplicito nell’annunciare ai rappresentanti francesi che un ritorno al vecchio asservimento avrebbe visto gli ex schiavi difendere la libertà conquistata.

La sua posizione è espressa perfettamente nella seguente affermazione:

«Ho preso le armi per la libertà di quelli del mio colore, [libertà] che solo la Francia ha proclamato, ma che nessuno ha il diritto di annullare. La nostra libertà non è più nelle loro mani, ma nelle nostre. Noi la difenderemo o periremo»


Inoltre, contro il punto di vista francese, che sembrava fermo ad una visione restrittiva dei vincoli coloniali per l’isola, guardava alla prospettiva della libertà di commercio ed aveva avviato in questo senso dei contatti con gli Stati Uniti[8].

Dopo uno scontro su quest’ultimo e su altri punti, il 27 agosto 1797, con un gesto clamoroso, costrinse Sonthonax a ritornare in Francia; pur continuando a professare lealtà nei confronti della Repubblica Francese[9], voleva essere il più possibile padrone della situazione. Il suo governo sull’isola, ora, non aveva rivali. Seguirono, comunque, anni difficili. Agenti francesi istigarono contro Toussaint la ancora potente classe della gens de coleur che – di nuovo sotto la guida di Rigaud – si ribellò. Scoppiò un conflitto (la guerra dei coltelli, dal 19 giugno 1799 a marzo 1800). Toussaint si dovette servire (per sottomettere la parte meridionale dell’isola) dell’aiuto di Jean-Jacques Dessalines, un uomo di grandi capacità militari, ma di cui conosceva la brutalità. Infine mantenne il controllo, ma il bilancio fu grave, anche se le cifre delle perdite rimangono indeterminate[10].

Assicuratosi della fuga di Rigaud, promulgò un’amnistia generale nei confronti degli insorti.

Sembrava arrivato il momento di dedicarsi alla parte costruttiva del lavoro: il risanamento economico e la pacificazione sociale di un paese devastato da conflitti quasi decennali, ma in Francia si stavano prendendo decisioni che avrebbero stroncato l’esperimento.

Napoleone ristabilisce la schiavitù

Con il colpo di Stato del 18 Brumaio (9 novembre 1799) giungeva al potere Napoleone Bonaparte.

Bonaparte era legato in più modi agli interessi dei piantatori delle colonie (la sua stessa prima moglie Joséphine de Beauharnais apparteneva ad una famiglia di proprietari della Martinica), e ricevette da essi appoggi importanti per la sua ascesa. Al momento opportuno avrebbe scatenato un assalto all’autonomia della Saint-Domingue nera e ristabilito nelle altre colonie la schiavitù abolita dalla Convenzione.

Napoleone, inoltre, sapeva bene che l’anomalia del governo di Toussaint e della repubblica degli schiavi liberati era intollerabile anche dal punto di vista delle altre potenze schiavistiche dell’epoca, ed era percepita come un focolaio pericoloso di contagio[11].

Il ristabilimento della schiavitù venne deciso il 19 aprile del 1801 e sanzionato ufficialmente il 10 maggio 1802. Nell’isola della Martinica, in pratica, gli schiavi non avevano conosciuto la liberazione: subito dopo il decreto della Convenzione, infatti, l’isola era stata conquistata dagli Inglesi, che lo avevano annullato (30 marzo 1794)[12].

Nella Guadalupa ci fu una resistenza dei soldati di colore (già inseriti, dal 1793, nelle truppe francesi) al generale Lacrosse, che aveva ordinato loro di deporre le armi, ed al nuovo corpo di spedizione inviato da oltreoceano (1802). Gli ufficiali di colore Ignace e Delgres, con le loro truppe, combatterono fino all’ultimo.

Il 10 maggio, ormai sicuro della sconfitta, Delgrès scrisse un proclama «all’universo intero» da cui sono tratte le seguenti righe:

«È nei più bei giorni di un secolo che sarà eternamente celebrato per il trionfo dei lumi e della filosofia, che una classe di sventurati, che ora si vuole annientare, è costretta ad indirizzare la propria voce alla posterità. […] Ci sono ancora degli uomini che non sopportano di vedere uomini neri, o provenienti dalla stirpe di quel colore, se non nelle catene della schiavitù. […] La resistenza all’oppressione è un diritto naturale. La Divinità stessa non può disapprovare la difesa che facciamo della nostra causa […] Tu, Posterità, accorda una lacrima alla nostra sventura, e noi moriremo soddisfatti»


Il 28 maggio i 300 combattenti superstiti diedero fuoco alle polveri del loro fortilizio e morirono tutti piuttosto che arrendersi.

Il 16 luglio un decreto del governo stabiliva, in riferimento alla colonia della Guadalupa, anche la soppressione della parità dei diritti per la popolazione di colore libera, riservando la cittadinanza francese ai soli bianchi (vedine alcuni stralci in appendice).

Sconfitta e morte di Toussaint. Sconfitta della spedizione napoleonica. Indipendenza di Haiti.
Nel 1801 Toussaint aveva redatto una Costituzione autonoma per l’isola, sulla quale si riservava la dittatura a vita e la nomina del successore. Negli anni trascorsi dall’estromissione di Sonthonax non aveva cessato di sperare in un patto che riservasse l’autonomia della (ex) colonia in un contesto di rapporti privilegiati con la Francia e di formale sovranità francese. Anche questa volta sperò che Napoleone approvasse la Costituzione autonomistica.

Dall’anno precedente aveva avviato un piano per la ripresa economica. Aveva fissato per cinque anni una fase transitoria nella quale i lavoratori neri non più schiavi avrebbero lavorato nelle piantagioni, compensati con un quarto del prodotto lordo. Si era impegnato a garantire la sicurezza e le proprietà dei coloni bianchi che fossero rimasti (o anche rientrati) nell’isola. Pensava che per il futuro del paese si dovesse costruire una nuova convivenza tra i gruppi che si erano scontrati nella fase rivoluzionaria.

Fu molto severo nel reprimere i tentativi di ulteriore rivolta e tutto ciò che era volontà di forzare le tappe nello sviluppo dei rapporti economici; riteneva che senza un duro lavoro l’isola non sarebbe mai arrivata a quella prosperità senza la quale era impensabile la libertà. Finì per stabilire il lavoro forzato, con punizioni a quanti vi si sottraevano.

Giunse anche a condannare a morte il proprio nipote e compagno d’armi Moyse, accusato di essersi posto a capo delle proteste dei braccianti e di aver tramato una insurrezione (22 – 23 settembre 1801)[13].
Questi ultimi fatti e le caratteristiche autoritarie della Costituzione mostrano il limite della sua visione politica e il rischio che stava correndo di perdere il contatto con le aspirazioni di quelle masse che lo avevano seguito negli anni della Rivoluzione[14]. Sarebbero, però, giudicati ingenerosamente se non si tenesse conto delle difficoltà davvero estreme di quella convivenza che Toussaint cercava di garantire.

Napoleone inviò nell’isola un esercito di c/a 20.000 uomini sotto il comando del cognato, il generale Victor Emanuel Leclerc. Si trattava della maggiore spedizione militare per mare dell’intera storia della Francia. I preparativi erano potuti iniziare solo alla fine del 1801, in seguito alla tregua con l’Inghilterra (che avrebbe portato alla pace di Amiens, marzo 1802).

Dopo un tentativo di resistenza, di fronte a forze che apparivano soverchianti, Toussaint cedette, e dichiarò di volersi ritirare a vita privata. La cosa era poco credibile, e – d’altra parte – Napoleone aveva fin dall’inizio previsto il suo arresto, che fu attuato con l’inganno (7 giugno 1802). Toussaint reclamò inutilmente il diritto a difendersi in un giusto processo; venne incarcerato in un forte sui monti del Giura, dove morì meno di un anno dopo (7 aprile 1803), affranto dalla sconfitta e logorato (era ormai sessantenne) dalla durezza delle condizioni carcerarie.

Il trattamento riservato a Toussaint e le notizie provenienti dalle altre colonie rivelarono che i Francesi volevano imporre il ritorno integrale alle condizioni del passato. I luogotenenti Dessalines e Christophe si appellarono alle masse degli ex schiavi per la resistenza e la difesa della propria libertà. Scoppiò una guerra che durò fino a tutto il 1803, con terribili eccessi da entrambe le parti (alla fine prese, praticamente, l’aspetto di guerra di reciproco sterminio razziale).

Nella primavera del 1803 le truppe francesi – già in difficoltà – furono decimate dalle febbri gialle, tipiche del clima tropicale (ne era morto a novembre dell'anno precedentelo lo stesso Leclerc). Da allora in avanti furono in ritirata, fino a conservare la sola città di Le Cap, dalla quale abbandonarono l’isola con la residua popolazione bianca, alla volta di Cuba, durante una tregua.

Il 1 gennaio del 1804 veniva dichiarata l’indipendenza di Haiti (si ripristinava anche l’antico nome dell’isola).

Non era pensabile un tentativo francese di riconquista: tra l’altro erano già riprese le guerre europee di Napoleone, con nuove ostilità verso l’Inghilterra. Non erano più disponibili forze da dedicare ad una preda così intrattabile.

Nessuna delle nazioni europee era disponibile a riconoscere una repubblica di ex schiavi neri liberati. Ciò valeva anche per gli Stati Uniti. L’avvio della vita autonoma di Haiti era perciò difficile, perché riduceva le possibilità di partnership commerciale sulle quali si sarebbe dovuto basare lo sviluppo economico dell’isola.

Anche le vicende politiche interne furono tormentate da divisioni e lotte per il potere.

La libertà di Haiti farà comunque da battistrada al processo di liberazione delle colonie sudamericane. Il presidente haitiano Pétion (in carica dal 1810 al 181[SM=g27989] fornirà asilo e aiuto a Simon Bolivar per la sua campagna rivoluzionaria nel Sud America.

Assieme alla schiavitù Napoleone aveva ristabilito anche la tratta. La abolirà nuovamente durante i “cento giorni” (1815), con leggero anticipo rispetto al Congresso di Vienna.

Nelle colonie francesi la schiavitù durerà ancora fino al 1848, anno nel quale sarà abolita dalla rivoluzione democratica di febbraio.

it.wikipedia.org/wiki/La_rivoluzione_francese_e_il_problema_della_schiavit%C3%B9_e_della_discriminazione_...





“Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sè non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri”.
Joseph Pulitzer (1847-1911), Fondatore Premio Pulitzer
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