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IL GEOVISMO IN CONFLITTO CON LA CRITICA LETTERARIA DELLA BIBBIA

Ultimo Aggiornamento: 17/09/2022 19:07
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AL CORPO DIRETTIVO DEI
TESTIMONI DI GEOVA
ADRIANO BASTON
CORSO LAGHI 151
10051 – AVIGLIANA
(TO) - ITALIA

IL GEOVISMO IN CONFLITTO CON LA CRITICA LETTERARIA DELLA BIBBIA

Quale atteggiamento assumono i Testimoni di Geova (TDG) nell’affrontare la lettura della Bibbia?

Alla domanda, ecco come essi rispondono nel loro opuscolo I Testimoni di Geova nel ventesimo secolo, 1997, a pag. 4, dove affermano: "Essi ripongono fede sia nelle SCRITTURE GRECHE Cristiane che in quelle Ebraiche e le prendono alla lettera eccetto dove le espressioni o il contesto indicano ovviamente che il discorso è figurativo o simbolico”.
Come si può constatare dalle loro stesse parole, a prescindere da certe simbologie come per le parole “fuoco”, “albero” e così via, essi affrontano la lettura della bibbia in senso “letterale”, per cui viene esclusa nel loro pensiero ogni forma di critica letteraria che la soffrono come fumo negli occhi! Di conseguenza non sentono alcun bisogno di conoscere i generi letterari e le fonti attraverso le quali nel tempo il testo Ebraico delle Scritture venne alla luce e cioè esse sono la tradizione Javista, detta tale per l’uso del nome "Jahvè", la tradizione Eloista per l’uso della parola “Dio”, la tradizione Sacerdotale, quella Deuteronomista e tradizioni minori, questo tra i secoli IX-V avanti Cristo.
È proprio sulla critica letteraria lo studioso J. Alberto Soggin, nella sua opera, Introduzione all’Antico Testamento, dice quanto essa sia importante per la comprensione del testo in esame: “Siamo giunti così quasi spontaneamente al concetto di critica biblica. Come noto “critica“ viene dal greco χοίνειν, il cui significato originario è “separare“, “distinguere“, da cui, “giudicare“. In questo senso si pone il nostro termine “critica“. Orbene, a causa del carattere sacro, e quindi autoritativo, che il testo riveste per il credente, ebreo o cristiano che sia, egli dovrebbe accettare senza difficoltà la critica Biblica in quanto essa si propone di dargli un testo che sia il più possibile vicino all’originale. Invece, è accaduto proprio il contrario: in ambienti ebraici, i protestanti e cattolici conservatori la critica biblica è stata spesso accolta con diffidenza, quasi che chi la pratica voglia orgogliosamente e quindi empiamente mettersi al di sopra del testo per giudicarlo, per “criticarlo”. Una tale concezione delle funzioni della critica mostra una completa mancanza di familiarità col concetto, valido del resto anche nel campo della musica o delle arti figurative, e non può essere quindi presa sul serio. Ambienti religiosi conservatori ma colti accettano del resto, in maggiore o minore misura a seconda dei casi, il principio della critica testuale applicata alla Bibbia: non si tratta, infatti, di mettersi al di sopra del testo, di “giudicarlo“, ma semplicemente di servirsi di metodi ampiamente collaudati per restituirlo, nei limiti della possibilità, alla forma originaria, dalla quale secoli, millenni di trasmissione prima orale poi manoscritta l’hanno allontanato.“
(Pagine 65,66, Paideia Editrice, Brescia 1987).

Leggere alla lettera la Scrittura come usano fare i fondamentalisti senza tener conto dei generi letterari e le sue fonti, si corre il rischio di avere un errata visione di Dio che confrontata con l’immagine che ci offre Gesù, a dir poco si rimane sconcertati. Si noti al riguardo le osservazioni condotte dallo studioso Andrè Paul nella sua opera: “Il Giudaismo antico e la Bibbia” :in breve, qui il profeta è un visionario, visto per così dire da un lato solo, poiché la sua descrizione deve essere completata da quest’altro brano:(Isaia V.15-16 dello stesso c. 66:

“Poiché, ecco, JHWH viene con il fuoco
-i suoi carri sono come turbine-
per riservare con furore la sua ira
e le sue minacce con fiamme di fuoco.
Con il fuoco infatti JHWH farà giustizia
su tutta la terra
e con la spada su ogni carne;
molti saranno le vittime di JHWH”.

Qui JHWH e descritto come il dio guerriero è più precisamente il dio della tempesta della mitologia dell’antico medio oriente, proprio come Baal “cavalcatore delle nubi“ a Ugarit. La sua arma è il fuoco, ossia la folgore di quel dio della tempesta. Il giudizio divino è presentato come giudizio universale; verrà esercitato su ogni carne“ (Kôl basar)”. (pag. 308, EDB 1993).
Questa rappresentazione di Dio da parte del Profeta che non è l’unica del genere dell’Antico Testamento, pagina molto usata dai Testimoni di Geova che serve come minaccia sempre presente, il castigo divino riservato a coloro che non seguono le norme dottrinali emanate dai dirigenti che sostengono di essere guidati dallo “spirito di Dio”.
L’isolamento nel quale si sono rifugiati dicono, serve a proteggerli dal castigo di Dio che “fra breve” si abbatterà sugli 8 miliardi, compresi innocenti e bambini, di esseri umani per la colpa di aver seguito la propria religione o filosofia e non il credo Geovista. Essi non tengono conto che la Bibbia è fatta di molte pagine ognuna delle quali apporta il proprio pensiero, pagine di benedizione, di maledizioni, di guerre, di pentimento, di castighi divini, etc, etc,.
Ecco come osserva in una sua lezione il grande studioso Gianfranco Ravasi, la Bibbia: “.Per qualcuno una pagina della Bibbia è tutto, e su questa pagina egli organizza la propria conoscenza della Bibbia; questa pagina viene sempre ripresa, rimeditata…
Ecco allora la tentazione riduttivistica: la Bibbia ha quasi solo questo colore. Si è letto già qualche salmo che è in questa linea, sappiamo che all’interno della Bibbia ci sono molte lacrime e c’è molto sangue, e allora dei frammenti piano piano si cerca di individuare quasi tutto…” (Conversazioni Bibliche, Il libro del Qohelet, Edizioni Mondadori 2022, pag. 71)
I Testimoni di Geova hanno scelto la loro pagina, una pagina di un olocausto che fa impallidire Hitler. Tra L'altro essi affermano a pag. 3 dell’opuscolo in questione che: ”ogni dottrina religiosa deve essere sottoposta” all’esame basato sull’esperienza dell’Apostolo Paolo narrata in Atti 17:11, che riguardava l’attitudine dei Bereani, i quali si preoccupavano di esaminare: "le Scritture ogni giorno per vedere se le cose stavano così". Forse che i Bereani credevano e predicavano che Dio si chiamasse Geova come annuncio più importante? Che il Figlio di Dio fosse la prima creatura? Predicavano che non esiste l’immortalità dell’Anima? e che il destino dell'umanità sarebbe alla fine la Vita eterna paradisiaca sulla terra? che si sarebbero salvati alla fine del mondo solo i Testimoni di Geova, mentre tutti gli altri , compresi i bambini, la morte eterna? Dov’è scritto che i Bereani facevano i calcoli sulla fine del cosiddetto “presente sistema di cose”? Davvero essi, secondo ciò che viene narrato nel Capitolo 17 di Atti e seguenti, che essi predicavano queste cose?
Un ulteriore intervento, qui riportato, dagli studiosi che si occupano del problema letterario dell’agire di Dio in certe occasioni come descritto da alcuni Profeti, interessante è l’analisi dello studioso Hans Walter Wolff in Antropologia dell’Antico Testamento, che a prescindere dei vari significati che lo studioso attribuisce alla natura dell’Uomo a proposito della mente del Profeta sosteneva: “...salmo 88 verso Dio (3,14 s.)
Giunga te la mia preghiera,
inclina il tuo orecchio la mia voce!

Ed io a Te grido o Signore,
e la mia preghiera a te sale fin dal mattino.
Perché, Signore, respingi l’anima mia?
Perché mi nascondi il tuo volto?

Chi, se non Jahvè, potrebbe offrire rifugio, anche in vista degli inferi, dove la sua mano non giunge più (v.6)? Il suo dominio si estende sul regno dei morti (v. 7);

Tu mi hai gettato in una fossa profonda
nelle tenebre negli abissi.

…Ancora più innanzi si spinge la Parola di Dio della quinta visione di Amos, contenuta in 9,2, dove di coloro che vogliono sfuggire il giudizio, è detto:

Anche se penetrassero nello Sheol,
la mia mano li strapperebbe di là.

Qui Dio non è colui che consegna gli uomini alla morte: anzi il presupposto è che gli uomini spontaneamente fuggono verso di essa, solo per essere sicuro della presa di Dio (Salmo 88,6.11-13!) In questo appunto sta la novità del messaggio, che Jahvè giunge con la sua mano anche fino al fondo al mondo di dei trapassati. Ad una siffatta consapevolezza giunge anche il salmo 139,8:

Quand’anche io volessi giacere nello Sheol
ecco, persino là tu ci sei!

Se Jahvè è l’unico Dio, non si può fare a meno di trarre le conseguenze che neppure alla morte può essere riconosciuto un ambito di signoria, nella quale sarebbe impedito a Dio di giungere.” (pagine 142, 143, Queriniana ed., Brescia 1985)
Quindi il Profeta nella vana ricerca di sfuggire all’avverso Giudizio di Dio invoca la discesa nello “Sheol” nella speranza, che almeno laggiù si trovi al sicuro, così pensava, ma come ci riferisce la narrazione le cose non andarono nel modo sperato. Espressioni di questo genere ricorrono numerose nell’Antico Testamento e si rimane sbigottiti confrontate con le parole di Gesù che rivelano che siamo molto lontani dall'Immagine che egli ci offre dell’agire di Dio nei confronti dell’uomo peccatore, come viene riportato dalle parole di Gesù espresse in Matteo 21:21; Giovanni 3:19, 12:32; I Pietro 4:56. In queste ultime espressioni si noti che i morti dei quali vengono indicati dalle parole di Pietro è chiaro che si tratta delle Anime alle quali Gesù alla sua morte, come spirito, andò ad annunciare anche a loro il Vangelo. Accostare poi questo discorso che fa Gesù: “lasciate che i morti seppelliscano i morti" come erroneamente ricorrono i TDG nell’intento di dimostrare che non esiste la vita dopo la morte, viene smascherato dalle stesse parole di Pietro quando afferma che il Vangelo è annunciato anche ai “morti”, naturalmente morti in senso reale, al contrario del senso metaforico che Gesù da alla parola morti, intendendo i vivi che seppelliscono i morti reali. Inoltre le parole di Pietro attestano in modo inequivocabile la fede nella dicotomia, cioè l’esistenza di anima e corpo allo stesso modo che viene dichiarato nella seconda lettera cap 1:13-15. Allo stesso credo è legato l’Apostolo Paolo espresso nelle parole in II Corinti 5:1-5. Passi come tanti altri che dimostrano inequivocabilmente che la morte non è la fine ontologica, cioè il nulla come insegnano erroneamente i TDG, ma che al contrario, specialmente nell’N.T., è una realtà inconfutabile. Accostare quindi parole ed espressioni il cui significato nei contesti risultano di valore diverso allo scopo di sostenere delle falsità dottrinali, dispiace dirlo è una specialità geovista adoperata furbescamente per ingannare gli esperti di conoscenza biblica che sono disposti ad ascoltarli. lo stesso si dica anche dell’uso che si fa della lettura letterale della Bibbia per i propri fini dottrinali.
Il rifiutare da parte dei dirigenti del geovismo di disporsi per un confronto con le discipline della ricerca scientifica non è forse una palese ammissione dell’incapacità culturale di soddisfare questa esigenza? E se al contrario invece può essere soddisfatta, perché non approfittare di questa opportunità per confrontarsi con i vari studiosi delle facoltà teologiche come quelli, per esempio, riportati in questo scritto? Il loro silenzio a riguardo non è forse la dimostrazione di una ritirata strategica per sfuggire dalla responsabilità di dare una risposta ai loro aderenti che chiedono informazioni letterarie? È vero che in alcune occasioni per dare un appoggio alle loro falsità dottrinali ricorrono ad alcuni studiosi, ma è anche vero come ci risulta, che le espressioni scelte, vengono spesso usate fuori dal significato del loro contesto, vedi per esempio nel libro Ragioniamo sull’uso della Croce da parte della Cristianità, il testo settario adoperato dai Testimoni di Geova in questo libro, il testo che viene usato a pagina 87 afferma che alla metà del terzo secolo dopo Cristo le Chiese: "si erano ormai dipartite da certe dottrine della fede cristiana”, come quella di usare il simbolo pagano T(TAU) per spiegare la crocifissione di Gesù Cristo. È in questo genere di scritti che i TDG ricorrono spesso per provare le loro dottrine. L’autore della citazione ignora che pure nella storia religiosa dei popoli esistevano anche i <<pali sacri>> Deuteronomio 7:5. Anche il così detto Lingam, in alcune religioni orientali, viene trascurato dall'analisi a pag. 87 del libro Ragioniamo, vien detto di esso: <<il Lingam in sanscrito significa, segno, tratto, palo, evidenza.>>
Il nostro non ha tenuto conto neppure che la Croce viene menzionata molti anni prima della fine del terzo secolo dopo Cristo da Giustino Martire (130 e 160) nella sua prima Apologia, 35.6, spiega che: “dei chiodi furono piantati sulla Croce nelle sue mani” dopo averle “distese” ( Gli Apologeti greci, Città Nuova editrice 1986, pag. 115) si invitano i TDG a controllare che la Croce è pure menzionata nel Vangelo di Pietro, risultante al 150 D.C. dove viene detto che il Signore dopo essere stato flagellato “lo crocifissero" e quando venne deposto: ”Estrassero i chiodi dalle mani del Signore” (i Vangeli apocrifi di Luigi Moraldi, I Vol., Piemme 1996 pagine 586, 587). Infatti è lo stesso Vangelo di Giovanni 20:25 a specificarci che: “nelle sue mani vi era il segno dei chiodi."
Allora ci chiediamo dove è scritto l’espressione “segno del chiodo”? Come infatti viene rappresentato dai TDG Gesù appeso ad un palo? a proposito della Croce sono stati costretti dalla casa editrice a correggere la citazione dal dizionario italiano Liddell Scott, a pag. 85 del libro Ragioniamo, a ricorrere ad una nuova edizione del libro nel 1990 che corresse e aggiunsero l'accezione: "La Croce nel N.T.” che nella prima edizione di detto libro del 1985 da veri veritieri avevano omesso per fini dottrinali.
I ricercatori si sono impegnati nell’analizzare l’A.T. e le tradizioni che lo composero, quello che ritengono fra queste la più significativa è la tradizione Jahvista, come sostenuto tra gli altri studiosi, da Gerhard Von Rad la sua opera Genesi, afferma: “tutti sono concordi nell’esaltare la genialità della narrazione javistica. A ragione si giudica la maestria artistica di questa narrativa come una delle maggiori affermazioni della storia dell’ingegno umano di tutti tempi. La descrizione delle varie scene si distingue per stupenda limpidezza ed estrema semplicità. Con una sorprendente esiguità di mezzi l’opera di questo narratore abbraccia l’intero arco della vita umana con le sue altezze e le sue miserie. Egli ci descrive con una concretezza ineguagliabile l’uomo il suo mondo, gli enigmi e i conflitti delle sue opzioni ed azioni esterne, come pure gli smarrimenti e la confusione del suo cuore. Tra i narratori biblici è il più grande il grande e psicologo;” (pag. 26, Paideia editrice, Brescia 1978)
In relazione allo stesso tema è pur significativo il recente intervento del grande studioso Gianfranco Ravasi nelle sue Conversazioni Bibliche, che personalmente trovo molto istruttive, nel primo volume il libro della Genesi, alle pagine 24, 25, sulla tradizione Jahvista egli rileva:
“Dall’altra parte, (dalla tradizione sacerdotale), abbiamo invece l’uomo molto più antico, molto più glorioso, una figura monumentale e la TRADIZIONE chiamata JAHVISTA, perché usa il nome sacro, impronunciabile di JHWH del Signore, il nome specifico di Dio.
Questa tradizione è fiorita da quando in Israele c’era lo splendore di Salomone nel X sec. a.C. Quest’uomo appartiene agli intellettuali di Salomone, rappresenta quel gusto di conoscenza, di approfondimento, di scavo della realtà che aveva Salomone. Ebbene questo presenta con quello scetticismo che è proprio degli intellettuali, la figura dell’uomo: da un lato l’uomo in tutta la sua grandezza, in tutte le sue potenzialità (cap.2); dall’altro l’uomo con tutte le sue miserie (c. 3).” (Mondadori 2021)
Grazie a questi ricercatori se oggi ci è concesso di possedere una maggiore conoscenza della Bibbia, dalla sua origine e formazione letteraria, ma quando i TDG espongono il loro opuscolo: “I Testimoni di Geova nel Ventesimo secolo” a pag. 13, ci propongono un elenco del loro credo con il quale viene ignorato ogni interesse di sostenerlo attraverso l’analisi storica e scientifica che per incapacità intellettuale l’elenco si presenta senza analisi critica, se si pensa, specialmente all’uso del nome Geova, (da Jehovah) con la quale si identificano e si tratta di un nome falso come si dimostra tra gli altri studiosi, lo scritto James Baar, che proprio sul nome Geova egli afferma nella sua opera: Semantica del linguaggio biblico, quanto segue: “
“Si pensi a parole ormai entrata nell’uso delle lingue moderne, come “efod” per l’inglese e come πάοχα, per il greco. Qualche volta devono essere creati i termini anche di importanza fondamentale: si può avere un esempio di questo caso nel non piccolo numero di lingue nelle quali è stato inserito l’inglese “God” (Dio) o lo pseudo ebraico Geova e certo come elementi più o meno stranieri presumibilmente perché si avvertiva in queste lingue non c’erano termini che non avessero già una posizione precisa nella coscienza culturale dei popoli che ne parlavano; usare qualcuna di queste parole riferite al Dio della Bibbia avrebbe potuto trarre in errore.”

In nota viene detto: “Jehovah: è parola fittizia. Essa deriva da uno strano giuoco intorno al tetragramma o lettere sacre indicanti il nome di Yahweh. Esso era scritto in ebraico con le sole consonanti Y H W H; poiché Y H W H era normalmente letto adonay fu vocalizzato con le vocali di quest’ultimo; a o a, solo che la prima a, per una legge fonetica ebraica divenne e con le nuove consonanti; donde Ye-Ho-Wa-h: a parola quindi inesistente, ma assai diffusa specie nelle nei manuali di qualche tempo fa .”(Pag. 370, EDB, 1990)
Come viene evidenziato da detta analisi il nome "Jehovah” ( Geova), come risulta si tratta di un nome falso. Siccome per i TDG tutte le cose si identificano con il loro nome pure Dio, necessariamente, per distinguersi deve possedere un nome. A proposito di queste affermazione geoviste il ricercatore Martin Noth, nella sua opera, Esodo, afferma:
“Infatti secondo la concezione dell’Antico Oriente, il <<nome>> di quanto esiste fa necessariamente parte della sua esistenza e ci conosce e si conosce una realtà soltanto quando se ne può dire il <<nome>>. Così anche Mosè potrà rendere credibile Israeliti la realtà del suo incontro con Dio se potrà dire il nome di Dio che gli è apparso.”(Pag. 52, Paideia editrice, Brescia 1977)
Quindi che Dio abbia bisogno di avere un nome per distinguersi dalle altre cose, come sostengono i TDG, è del tutto assurdo come risulta dalle parole dell’apostolo Paolo in 1 Corinti 8:4-6. Giustino Martire l’aveva ben capito quando scrisse nella sua seconda apologia 6.1, che dice a riguardo al nome: ”ma non esiste un nome da dare al Padre di tutte le cose, colui che è ingenerato. Infatti il nome con cui viene chiamato suppone un essere più antico che abbia impartito il nome: <<Padre>>, <<dio>>, <<creatore>>, <<Signore>>, <<Padrone>>, non sono nomi ma attributi per i suoi benefici e le sue opere.”

Su questa strada è pure impegnato lo studioso, psicoanalista Erich Fromm:
“Gli ebrei non crederanno in lui: “E Mosè disse a Dio, ‘ecco quando sarò giunto dei figli d'Israele e avrò detto loro: È il Dio dei vostri padri che mi ha mandato da voi, se essi mi domanderanno, Qual è il suo nome?, che risponderò loro?’ Esodo 3:13. L’obiezione di Mosè viene accettata l’essenza stessa di un idolo sta nel fatto che ha un nome; ogni cosa ha un nome perché è intera nello spazio e nel tempo. Per gli ebrei abituati al concetto di idolatria, un Dio della storia senza nome non poteva avere senso, poiché un idolo senza nome è una contraddizione in se stesso. Dio se ne rende conto e fa una concessione alla capacità di capire degli ebrei. Si dà un nome e dice Mosè: “IO SONO COLUI CHE SONO”. Poi disse: ‘Così dirai ai figli di Israele: L’IO SONO mi ha mandato da voi” Esodo 3:14. (Voi sarete DEI, Ubaldini Editore, pa. 23,24, 1977)
Se il nome di Dio è la cosa più importante come sostengono i TDG perché Dio non si è preoccupato di mantenere la vera pronuncia del suo nome?.
Agli impegnati nella ricerca letteraria tengano presente e non devono dimenticare ciò che segnala il Gerhard Von Rad e cioè: “Ogni commento che voglia essere scientifico deve prima di tutto cercare di comprendere il materiale narrativo della Genesi come fu compreso in Israele nel contesto dei grandi complessi narrativi J, E e P, cioè all’incirca nell’epoca che va dal IX al V secolo. Il compito è difficile perché i narratori non offrono interpretazioni dirette degli avvenimenti, ma, quanto la loro valutazione, si tengono completamente in ombra. (Genesi, pag.45, Paideia Editrice, Brescia 1978)
A fronte di quanto detto sull’agire dei TDG alla lettura delle loro pubblicazioni una volta accettata la lettura letterale delle scritture alla fine risulta che il lavoro che sanno fare meglio è quello di allontanare da se stessi il più possibile lo spettro di ogni forma di critica letteraria e relegare il tutto, nello spazio del silenzio. Infatti non sembrano per nulla interessati a conoscere i risultati fino ad ora ottenuti dagli studi. In questo modo i dirigenti del geovismo impediscono ai loro associati di emanciparsi e in questo modo impediscono loro di acquistare il corretto intendimento delle scritture, naturalmente fin dove lo consente la ricerca letteraria. Come si può constatare da questo non esauriente scritto, un dialogo con i TDG, i quali ritengono che la corretta comprensione della bibbia dipenda da una lettura letterale, questo li isola dalla realtà e con ciò il dialogo con loro risulta impossibile, esclude ogni possibilità di confronto critico.

ADRIANO BASTON


[Modificato da Adriano Baston 17/09/2022 19:11]
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