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IL PRIMO SERIAL KILLER ITALIANO ERA PEDOFILO...

Ultimo Aggiornamento: 20/11/2008 09:18
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La Pedofilia è una perversione molto comune tra gli assassini seriali: dopo le donne, quella dei bambini è la categoria vittimologica più frequente.
In questo caso, l'assassino seriale ha una particolare difficoltà a relazionarsi con un soggetto sessualmente adulto.
Il bambino è un soggetto meno impegnativo, per cui non subentra l'ansia da prova.
Il controllo del potere è assoluto, dato che la vittima offre un grado di resistenza quasi nullo. Quasi sempre i pedofili hanno loro stessi alle spalle un'esperienza di abuso subita durante l'età evolutiva, per cui sono portati a ripeterla, assumendo però, questa volta il ruolo dell'aggressore.
Riguardo alle modalità di avvicinamento della vittima, possiamo distinguere due tipologie di assassini seriali pedofili:
1. pedofilo violento: di questa categoria fanno parte gli stupratori ed i soggetti che, alla violenza del minore, fanno seguire l'omicidio con modalità particolarmente cruente;
2. pedofilo non violento: utilizza principalmente la modalità della seduzione, riuscendo ad individuare i minori che hanno gravi carenze affettive; in questi casi, il pedofilo può rappresentare per loro un mezzo per riempire il vuoto affettivo ed emotivo lasciato dai genitori.
Un esempio di pedofilo non violento è rappresentato da Luigi Chiatti, un giovane geometra di Foligno che, tra il 1992 ed il 1993, uccise due bambini.
È necessario effettuare un'ulteriore distinzione tra assassini seriali pedofili solitari, che agiscono individualmente e assassini seriali pedofili organizzati, che agiscono in gruppo e all'interno del più vasto campo della prostituzione minorile e del turismo sessuale.
Il serial killer che vuole adescare un bambino si presenta con un aspetto rassicurante e a volte può farsi vedere vestito da poliziotto o da prete o comunque sfruttare una delle tante figure per le quali viene insegnato ad avere rispetto.
Spesso l'omicidio è preceduto da molestie sessuali o da veri e propri atti di violenza, mentre l'uccisione può avere la funzione di eliminare un possibile testimone.
In alcuni paesi, sono le stesse condizioni ambientali ed economiche a favorire la scelta dei bambini come vittime da parte degli assassini.
In Russia il mercato per pedofili e trafficanti di minori è particolarmente florido, perché, dopo il crollo delle strutture sovietiche, migliaia di fanciulli abbandonati o fuggiti da orfanotrofi vagabondano nelle strade delle grandi città e possono essere facilmente adescati.
Nelle cronache piemontesi, a partire dal 1800, si ritrovano due personaggi le cui gesta possono essere analizzate nell’ottica di quella che con gli strumenti scientifici e culturali moderni, si definirebbe serialità omicida pedofila.
Bisogna però tener conto del fatto che le categorie e le metodologie di analisi e di indagine che oggi ci permettono di parlare di killer seriali pedofili non erano ancora state sviluppate.
E’ il caso di Giorgio Orsolano e quello di Giovanni Gioli, che compirono i loro crimini rispettivamente nel 1835 e nel 1909, la ricostruzione delle cui azioni criminali è basata prevalentemente sulle cronache dell’epoca.
La scelta dei due casi concreti esaminati consente di avere una panoramica generale su eventi che hanno avuto un notevole eco sull'opinione pubblica del tempo.
Come vedremo meglio in seguito, il primo, Giorgio Orsolano, è il tipico serial killer sadico sessuale, le cui vittime sono esclusivamente bambine tra i 10 ed i 14 anni, per l’epoca considerate già giovani donne; il secondo, Giovanni Gioli, è un serial killer pedofilo.
L’omicidio per loro sembra essere incidentale rispetto alle azioni di criminalità predatoria che pongono in essere, anche se viene consumato con un distacco, una freddezza ed una ferocia tali da lasciare sgomenti.

Giorgio Orsolano
Data la notevole distanza temporale che ci separa dalle vicende di cui fu protagonista Giorgio Orsolano, gli unici strumenti che è stato possibile utilizzare, per tentare di ricostruire in maniera plausibile le sue gesta, sono alcuni documenti storici, quali le sentenze di condanna emesse del Regio Senato del Regno di Sardegna a suo carico e le cronache di alcuni cittadini illustri della città di San Giorgio Canavese. Nonostante alcune incongruenze tra le diverse fonti, un’analisi comparata di tale materiale ha permesso di ricostruire una cronistoria attendibile della vicenda criminale dell’Orsolano, sfrondandola di quei particolari che con il passare del tempo hanno assunto un’aura di leggenda.
Giorgio Orsolano nacque a San Giorgio Canavese il 3 giugno 1803. Il padre Antonio morì quando lui aveva pochi anni e la madre Maria Margherita Gallo dovette badare, oltre che a lui, anche a sua sorella Maria Teresa Margherita, nata nel 1800.
Venne dapprima iscritto nelle scuole comunali del paese, dove ottenne scarsi risultati, dato il carattere difficile e la poca propensione allo studio. La madre decise allora di affidarlo alle cure di uno dei suoi fratelli, il sacerdote e professore di filosofia don Giuseppe Gallo.
Il ragazzo venne quindi portato dallo zio nel collegio di Cuorgnè, dove venne avviato allo studio delle materie umanistiche e del latino. Anche questa volta i risultati furono sconfortanti, tanto dal punto di vista didattico quanto da quello più propriamente formativo.
Di carattere ribelle, dimostrò un rifiuto per le regole e la disciplina che la vita in collegio imponevano. Inoltre, all’età di tredici anni, violentò una giovane inserviente del collegio stesso. Venne quindi rimandato a casa e riaffidato alle cure della madre.
Anche stavolta la donna non seppe tenerlo a freno, ed il giovane iniziò a bere, giocare d’azzardo e vivere di espedienti. Era inoltre spesso protagonista di violente risse paesane e forse proprio in una di queste perse l’occhio destro.
Il 15 dicembre 1823 il Real Senato di Torino pronunciò una condanna, pubblicata col protocollo nr. 741 nel Libro delle Sentenze dell’anno 1823, nei confronti dell’Orsolano, il quale era:
“Detenuto nelle carceri di Ivrea ed inquisito:
1° D’aver verso un’ora dopo il mezzodì del giugno ultimo scorso, in riva imboschita del territorio di S. Giorgio della regione detta dei Prati, tentato con ogni mezzo di stuprare la figlia nubile Teresa Pignocco di sedici anni, la quale era colà intenta a raccogliere erba, avendola violentemente assalita e gettata a terra, e per essersi la medesima costantemente rifiutata di aderire alle di lui impure voglie, nonostante le avesse promesso di pagarla, avendo appuntato alla gola di detta figlia un coltello di legno che trasse dalla tasca, minacciando di ucciderla qualora avesse opposto ulteriore resistenza, in quale frangente accorso nel luogo Vitale Ellena alle grida della figlia stessa, la liberò dalle di lui mani e la condusse a casa, ove dovette poi essere salassata e tenere il letto per cinque o sei giorni.
2° D’avere nei mesi di aprile e maggio del corrente anno, in tre distinte volte, derubato a pregiudizio della Confraternita di S. Marta, eretta nel luogo di S. Giorgio, numero dieci candele di once otto caduna, che facevano parte dell’altare maggiore, e parte d’una guardaroba della sacrestia di quella chiesa, essendosi servito della chiave che trovavasi appesa ad un chiodo nella sacrestia medesima.
3° D’avere tre mesi prima, nel mese si settembre ultimo giorno, in due distinti giorni, derubato a pregiudizio della chiesa parrocchiale di S. Giorgio, numero otto candele di once quattro aduna, che trovavansi nell’altare del Santissimo Rosario di detta chiesa.
4° D’essere sospetto di aver rubato in qualche chiesa un campanello di metallo che serviva verosimilmente per le messe
5° D’essere sospettato in genere di furti, dedito al gioco e scioperato
Il Senato vista la relazione degli atti ha pronunciato di doversi condannare, come condanna, il suddetto detenuto Orsolano Giorgio, alle pene della catena per un anno per il primo capo e della galera per anni sette per gli altri capi, precedente l’esemplarità di essere condotto per i soliti luoghi con il vezzo in spalla, espresso l’atto di interrogatorio ed ammonizione in ordine ai complici in mente del Regio Edito del 10 giugno 1814, dell’indennizzazione verso le chiese rubate, ed in quella che di ragione verso l’offesa Teresa Pignocco nelle spese.”
L’Orsolano venne quindi condannato ad un anno di carcere “alla catena” per il tentato stupro e a sette anni per i furti nelle chiese.
Scontata la pena, il 13 dicembre 1831 Orsolano uscì dal carcere con l'attestato di buona condotta. Con l'aiuto dello zio sacerdote venne assunto nella spezieria del paese e dopo qualche tempo decise di aprire un negozio di sua proprietà, affittando un locale in piazza e mettendosi a produrre salsicce.
Sul finire del giugno 1832, scompave da San Giorgio Canavese la piccola Caterina Givogre e nel febbraio dell'anno successivo un'altra bambina, Caterina Scavarda, di dieci anni, non fece ritorno a casa. In entrambi i casi le ricerche furono del tutto infruttuose e la tragedia venne attribuita all'opera dei lupi che allora si aggiravano a branchi nella zona.
Nel frattempo l’Orsolano si fidanzò con una cugina di secondo grado, Domenica Nigra, rimasta vedova a soli 24 anni e che di professione faceva la cucitrice. Dal loro rapporto, il 7 luglio 1833, nacque Margherita, mentre agli inizi dell'aprile del 1834 i due si sposarono in chiesa con la dispensa papale. Le cose in bottega però non andavano troppo bene e i soldi cominciarono a mancare, poiché la famiglia si trasferì a casa della moglie, dove l’Orsolano aprì una nuova attività legata alla mescita di vino e alla vendita di generi alimentari.
II 3 marzo 1835, martedì grasso e giornata di mercato a San Giorgio, giunse in paese Francesca Tonso, una ragazza di 14 anni, arrivata da Montalenghe con una cesta carica di uova ed accompagnata da una zia. L’Orsolano si avvicinò alla ragazza con la scusa di voler comperare tutte le uova, ma finse di non avere con se i soldi per pagare la merce. Chiese quindi alla ragazza di seguirlo fino a casa, per ricompensarla, e lei accettò.
Una volta varcata la soglia l’Orsolano chiuse la porta e le si avventò addosso. La giovinetta non ebbe il tempo di comprendere cosa stesse accadendo per tentare una qualsiasi reazione: L'uomo le strappò il cesto di mano, la scaraventò a terra e, dopo averla violentata, la uccise.
L'assassino, per disfarsi al più presto del corpo dell'adolescente stense poi il cadavere sul tavolo della cucina e con colpi sicuri di mannaia lo fece a brandelli. Separò il capo, le braccia, le gambe. Mise i resti in un sacco di iuta, assieme agli strofinacci usati per pulire la stanza, quindi si lavò, controllando che gli schizzi di sangue non gli avessero macchiato l'abito. Ma nella stanza lasciò due indizi che lo inchioderanno: gli zoccoletti della giovane e alcuni brandelli di vestito.
Durante la notte l’uomo uscì di casa con il macabro bottino e raggiunse il torrente Piatonia dove scavò una fossa, sotterrò i resti e poi lavò il sacco di iuta nel corso d'acqua che alimentava il mulino. Quindi si allontanò, con fare tranquillo, verso casa.
La zia della ragazza, zia non vedendola tornare, pensò che la giovane avesse concluso un buon affare e avesse fatto ritorno a Montalenghe, cosa che fece anche lei. In serata i genitori, preoccupati per le sorti di Francesca, deciser di tornare a San Giorgio per chiedere notizie. Nessuno però era in grado di fornire dettagli utili alle ricerche.
Il giorno dopo, la zia ricordò di aver visto la nipote allontanarsi con un uomo e cercò di descriverlo a sommi capi: la descrizione corrispondeva a quella di Giorgio Orsolano. I parenti si recarono a casa sua, ma egli, per nulla intimorito, negò con fermezza d'aver incontrato la giovane. Anzi, in modo burbero li cacciò fuori. I genitori di Francesca chiesero ancora informazioni e scoprirono che l'uomo aveva precedenti per reati di stupro, così decisero di recarsi dal giudice Giovanetti. Messo al corrente del caso il magistrato convoca Orsolano, che continua a dichiararsi estraneo alla sparizione. Mancano ovviamente le prove e l'uomo venne rilasciato. Ma non tornò a casa, bensì si recò dallo zio prete al quale chiese un piccolo prestito per un'eventuale fuga.
Nel Canavese, qualcuno si introdusse nella tana della "Iena" e in una camera, al piano superiore, trovò gli zoccoli, un cappello da donna e alcuni brandelli della camicetta lacerata. I genitori identificarono gli oggetti e il giudice emise un mandato di cattura. Giorgio Orsolano quando venne incatenato era ancora a casa dello zio: stava mettendo a punto il piano di fuga. La sua abitazione venne accuratamente perquisita e nella stanza si rilevarono numerose macchie di sangue sulle pareti così come sul tavolo. Nel cortile venne trovato anche il sacco di iuta, ancora intriso di sangue, utilizzato per trasportare i resti della povera Francesca.
L'uomo venne sottoposto ad un lungo interrogatorio, ma anche di fronte alle prove inconfutabili continuò a negare. Anche sulle tracce di sangue fornì spiegazioni poco credibili: quella macchie sarebbero state prodotte dall'uccisione di un cappone, messo in padella per festeggiare il Carnevale.
Anche nelle prigioni del comando dei carabinieri di San Giorgio, Orsolano continuò a professarsi innocente. I1 comandante della brigata cercò quindi uno stratagemma per estorcere la confessione. Una notte si presentò in cella con alcune bottiglie di vino e grappa. Gli offrì da bere, tanto che alla fine l'omicida si ubriacò e l’ufficiale gli suggerì, data l’evidenza delle prove contro di lui, di confessare il delitto e dichiararsi pazzo per evitar di finire sulla forca.
Allettato dalla proposta l'omicida decise di confessare tutto. E senza riserve. Rivelò il luogo dove aveva occultato i resti della ragazzina. Partirono le ricerche e nel luogo indicato in tre diverse buche venivano trovati i resti di Francesca. Il cadavere venne ricomposto e trasferito al cimitero, mentre sulla "Iena" cominciarono a circolare pensieri inquietanti. Data la sua professione di macellaio si sparse la voce che avesse utilizzato parte del corpo della ragazzina per farne del cibo. Anzi, che egli stesso lo abbia distribuito in vendita sotto forma di salami.
Diventò sempre più probabile l'ipotesi che anche altre due ragazzine (Caterina Givogre, sparita tre anni prima, e Caterina Scarda, scomparsa nel 1833) non siano state sbranate dai lupi, ma violentate e uccise dallo stesso Orsolano. L'omicida finisce nelle carceri di Ivrea in attesa che s'inizi il processo.
A Ivrea i carabinieri faticano a sgomberare la strada dalla folla che vorrebbe linciare l'assassino. Durante la permanenza in carcere alterna momenti di pentimento ad altri di feroce lucidità nei quali racconta con dovizia di particolari ogni crimine commesso. Viene piantonato giorno e notte: si teme che in un raptus possa togliersi la vita.
Il 13 marzo 1835, a seguito del processo per direttissima, arriva la sentenza: pena di morte, da eseguirsi mediante impiccagione nel luogo ove sono stati commessi i delitti. La sentenza tiene conto del "proditorio e barbaro omicidio commesso in San Giorgio il 3 marzo corrente sulla persona della nubile Francesca Tonso d'anni 14 circa, per aver spiccato il capo dal busto, ridotto il cadavere in pezzi, e quindi sotterrato in vari luoghi lungo il torrente Piatonia ". Cui si aggiunge il "consimile delitto commesso il 24 giugno 1832 sulla persona della ragazza Caterina Givogre d'anni 9 in 10, per averle sulle fini di detto luogo di San Giorgio, dopo che l'ebbe stuprata, mozzato il capo, fatto il cadavere in pezzi, ed il medesimo sotterrato in più luoghi lungo il suddetto torrente.... D'altro consimile delitto commesso il 14 febbraio 1833 sulla persona di Caterina Scavarda, ragazza d'anni 10 circa per averla, a pretesto di farle elemosina, tratta in casa, ed ivi violentemente stuprata e barbaramente uccisa, e, dopo ridotto il suo cadavere in pezzi, avere dispersi li medesimi per quelle contrade e campagne, onde crederla sbranata da qualche bestia feroce".
Al quarto punto la sentenza considera Giorgio Orsolano "persona dedita all’ozio e ad ogni sorta di vizi, dissoluto, armigero, incutente timore, solito ad ubriacarsi, capace di qualunque altro delitto, e già stato condannato per tentato stupro violento e per furti in Chiesa nella pena di un anno di catena, e di anni 7 di galera con Sentenza Senatoria del 15 dicembre 1823 ".
Prima di essere eseguita la pena di morte, il condannato deve provvedere ad indennizzare gli eredi delle tre vittime. È emblematica la descrizione di un anonimo avvocato, testimone oculare del processo: «Una fisionomia tetra, lo sguardo torbido ed irrequieto, lunga barba e folti capelli rossigni, l'ossatura del cranio irregolare e la mascella in¬feriore molto più grossa della superiore rendevano l'aspetto di quest 'uomo ributtante. Ma chi avrebbe potuto rimirarlo senza sentire in cuore un altissimo senso d'orrore, solo rammentando i delitti di cui si era macchiato?».
In una cronaca del tempo, scritta da un avvocato anonimo si legge: «Udì l'Orsolano tranquillamente la sua condanna; dopo la quale ebbe a confessare d'aver mangiato della carne delle due fanciulle prima uccise; d'averne fatto del prosciutto e vendutone pubblicamente. Ciò che parimenti avrebbe fatto della terza giovinetta se non fosse stato scoperto. Poiché nel seppellirle egli faceva in modo che parti atte all’uso che intendeva di fame non fossero al contatto della terra perché non si guastassero... Confessò che, allorquando trovavasi ai bagni di Villafranca, prevalendosi della libertà di penetrare nella farmacia, al cui servizio era addetto, somministrato aveva dei veleni lenti e anche potentissimi, dell'acido prussico in ispecie, a quelli fra i suoi compagni di pena che non gli andavano a genio, colà pure lasciando diverse vittime d'una crudeltà senza esempio».
Il 17 marzo, giorno in cui venne eseguita la sentenza, San Giorgio si riempì di persone: in tanti accorsero certi di «vedere un gigante, un mostro od una bestia», come ricorda una cronaca dell'epoca e tutti «restarono delusi nel vederlo e sortendo dicevano che recretavano d'aver pagato per vederlo, mentre era un uomo come gli altri; era piccolo di statura, cioè d'once 38 circa, la pelle il viso bianca e rosa, peli castagni, ciò che lo deformava un poco era la mancanza di un occhio che cercava di nascondere con un brano di capelli, del resto era di cortesi maniere, civile, grazioso e rispettoso».
L'università di Torino inviò tre chirurghi, il cui compito era quello di aprire il cadavere, osservarlo bene in tutte le sue parti, in particolare il capo e i testicoli (questi perché più voluminosi del solito). Il cranio verrà poi anche portato a Torino e deposto nel museo di anatomia dove ancor oggi si trova in bella mostra.

Ilaria Macchiorlatti

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Ma sui bambini ho episodi ancora migliori, ho raccolto molto, moltissimo materiale sui bambini russi, Alëša. C'era una bambina di cinque anni, venuta in odio al padre e alla madre, "persone rispettabilissime, di ottimo ceto sociale, ben educate e istruite." Vedi, te lo ripeto, questo gusto per la tortura dei bambini, solo dei bambini, è comume a molte persone. Con tutti gli altri membri del genere umano, questi aguzzini si comportano con benevolenza e mitezza, da europei illuminati e umani, però amano molto torturare i bambini, si può dire persino che amino i bambini in questo senso. È proprio la mancanza di difesa di quelle creature che seduce il torturatore, la fiducia angelica dei bambini, che non sanno dove andare e a chi rivolgersi: è proprio questo che infiamma l'abominevole sangue dell'aguzzino. In ogni uomo, certo, si nasconde una bestia, la bestia dell'irascibilità, la bestia dell'eccitabilità dei sensi alle grida della vittima torturata, la bestia sfrenata libera da catene, la bestia delle malattie contratte nel vizio, la gotta, le infezioni del fegato, e così via. Quella povera bambina di cinque anni fu sottoposta a sevizie di ogni genere da parte dei colti genitori. La picchiavano, la frustavano, la prendevano a calci, senza motivo, sino a ridurle il corpo a un ammasso di lividi; alla fine, si spinsero a livelli di maggiore ricercatezza: la chiudevano per tutta la notte al freddo, al gelo di una latrina e, per punirla del fatto che lei non chiamava in tempo per fare i suoi bisogni (come se una bambina di cinque anni che dorme sodo come un angioletto potesse già aver imparato a chiamare in tempo), le insudiciavano la faccia con le sue feci e la costringevano a mangiare quelle feci, ed era la madre, la madre a costringerla! E quella madre era capace di continuare a dormire, quando di notte si udivano i lamenti della povera bambina, chiusa a chiave in quel lurido postaccio! Lo capisci questo, quando un piccolo esserino che non è ancora in grado di capire che cosa gli stanno facendo, si colpisce il petto straziato con il suo pugno piccino, al freddo e al gelo di quel lurido postaccio, e piange lacrimucce insanguinate, dolci, prive di risentimento al "buon Dio", perché lo difenda? La capisci questa assurdità, amico mio, fratello mio, pio e umile novizio di Dio, tu lo capisci a che scopo è stata creata questa assurdità, a che cosa serve? Senza di essa, dicono, l'uomo non avrebbe potuto esistere sulla terra, giacché non avrebbe conosciuto il bene e il male. Ma a che serve conoscere questo maledetto bene e male, se il prezzo da pagare è così alto? Infatti, tutto un mondo di conoscenza non vale le lacrime di quella bambina al suo "buon Dio". Non sto parlando delle sofferenze degli adulti, che hanno mangiato la mela, che vadano al diavolo e che il diavolo se li pigli tutti quanti, ma di quelle dei bambini, dei bambini! Ti sto tormentando, Alëša, sembri fuori di te. La smetto, se vuoi».



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Ascoltami: ho preso il caso dei bambini perché tutto fosse più evidente. Di tutte le altre lacrime dell'umanità, delle quali è imbevuta la terra intera, dalla crosta fino al centro, non dirò nemmeno una parola, ho ristretto di proposito l' ambito della mia discussione. Io sono una cimice e riconosco in tutta umiltà che non capisco per nulla perché il mondo sia fatto così. Vuol dire che gli uomini stessi hanno colpa di questo: è stato concesso loro il paradiso, ma essi hanno voluto la libertà e hanno rubato il fuoco dal cielo, pur sapendo che sarebbero diventati infelici, quindi non c'è tanto da impietosirsi per loro. La mia povera mente, terrestre ed euclidea, arriva solo a capire che la sofferenza c'è, che non ci sono colpevoli, che ogni cosa deriva dall'altra direttamente, semplicemente, che tutto scorre e si livella - ma queste sono soltanto baggianate euclidee, io lo so, e non posso accettare di vivere in questo modo! Che conforto mi può dare il fatto che non ci sono colpevoli e che questo io lo so - io devo avere la giusta punizione, altrimenti distruggerò me stesso. E non già la giusta punizione nell'infinito di un tempo o di uno spazio remoti, ma qui sulla terra, in modo che io la possa vedere con i miei occhi. Ho creduto e voglio vedere con i miei occhi, e se per quel giorno sarò già morto, che mi resuscitino, giacché se tutto accadesse senza di me, sarebbe troppo ingiusto. Certo non ho sofferto unicamente per concimare con me stesso, con le mie malefatte e le mie sofferenze, l'armonia futura di qualcun altro. Io voglio vedere con i miei occhi il daino sdraiato accanto al leone e la vittima che si alza ad abbracciare il suo assassino. Voglio essere presente quando d'un tratto si scoprirà perché tutto è stato com'è stato. Tutte le religioni di questo mondo si basano su questa aspirazione, e io sono un credente. Ma ci sono i bambini: che cosa dovrò fare con loro? È questa la domanda alla quale non so dare risposta. Per la centesima volta lo ripeto: c'è una miriade di questioni, ma ho preso soltanto l'esempio dei bambini, perché nel loro caso quello che voglio dire risulta inoppugnabilmente chiaro. Ascolta: se tutti devono soffrire per comprare con la sofferenza l'armonia eterna, che c'entrano qui i bambini? Rispondimi, per favore. È del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro e perché tocca pure a loro comprare l'armonia con le sofferenze. Perché anch'essi dovrebbero costituire il materiale per concimare l'armonia futura di qualcun altro? La solidarietà fra gli uomini nel peccato la capisco, capisco la solidarietà nella giusta punizione, ma con i bambini non ci può essere solidarietà nel peccato, e se è vero che essi devono condividere la responsabilità di tutti i misfatti compiuti dai loro padri, allora io dico che una tale verità non è di questo mondo e io non la capisco.



(il grassetto è mio)

Fëdor Michajlovic Dostoevskij, tratto da IV. Ribellione, I fratelli Karamàzov trad. di Maria Rosaria Fasanelli, Garzanti, Milano

















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