Le donne nella chiesa tra oscurità e visibilità

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@nounou@
00mercoledì 28 marzo 2007 15:40
Portatrici di novità importanti per tutti, non sempre si vedono riconosciute

SE ripercorro la storia dei luoghi delle donne nella chiesa di Occidente, mi ren­do conto che l’assenza di monasteri, beghinaggi e case per diaconesse ha sottratto alle donne protestanti la pos­sibilità (riconosciuta) di una vita comunitaria fra donne, al di là del valore che il simboli­co maschile vi attribuisce e che ha governato spesso que­ste istituzioni. La comunità viene così a costituire per noi donne protestanti l’unico spazio pubblico importante di espressione (favorita da processi decisionali assem­bleari) nel cui ambito i grup­pi femminili, nati nel XIX se­colo dal desiderio di alcune donne, sono l’unico spazio che la chiesa prevede per in­contri di genere.
Al loro nascere i gruppi di donne si occupavano di pa­storale femminile, socializza­zione interna, formazione bi­blica, solidarietà e autofinan­ziamento attraverso i bazar. In questo modo sviluppava­no relazioni forti . È da qui che nascono o prendono vi­gore la libertà e la creatività nell’incontro con Dio e con il prossimo, sebbene subordi­nate alle regole del patriarca-lismo d’amore. Se la Federa­zione femminile valdese e metodista si costituisce su sollecitazione delle mogli di pastore - soggetti autorevoli nelle comunità -, il vento dell’emancipazione arriva dal contesto protestante in­ternazionale trovando terre­no fertile. A essa va, infatti, il grande merito di aver contri­buito a portare la chiesa all’emancipazione della don­na e nel 1967 a consacrare le prime donne pastore.
Ma all’emancipazione si aggiunge la femminilizzazione della chiesa, ed ecco che le donne si trovano a supplire all’assenza di uomini e a ge­stire le comunità e le struttu­re sovra ordinate a questo punto in tutte le loro funzio­ni. Paradossalmente questa situazione indebolisce le donne desiderose di entrare a far parte dell’universale neutro di cui fa parte il mito della complementarietà. An­cora una volta le donne si mettono nella condizione di Marta, custode della memo­ria e della tradizione, ma di­mentiche di sé, oblative.
Inizia così un lento e silen­zioso declino degli spazi fem­minili: in molte comunità le donne sciolgono le Unioni di cui non si vede più l’utilità, o forse su cui si sente venir me­no la legittimazione della chiesa laddove le mogli di pa­store si sottraggono al ruolo di complemento del marito - dato per scontato e mai rico­nosciuto come ministero - e disinvestono anche in questa attività, mentre la preparazio­ne dei bazar viene scorporata. Né aiuta l’alone di irrisione e di compatimento intorno all’esperienza della Fede­razione femminile.
Così il Decennio di solida­rietà delle chiese con le don­ne promosso dal Consiglio ecumenico in Italia, che è stato pressoché ignorato: le donne protestanti italiane impegnate nelle chiese sem­brano soddisfatte della pro­pria condizione nella chiesa. Ne è la riprova il loro genera­le disinteresse per lo svilup­po del femminismo in area anglosassone, francese e ita­liana: il pensiero della diffe­renza (di cui questo Decen­nio è figlio) che costituisce una rivoluzione nel modo di stare al mondo e di pensarlo.
Secondo questo sviluppo della filosofia femminista, in­fatti, non c’è più una visione neutra della realtà e uno spe­cifico femminile, ma vi sono due generi, uomini e donne, che non possono che vivere ed esprimere la propria par­zialità. Per cinque anni un coordinamento nazionale di donne evangeliche con qual­che amica, chiamatosi Cas­siopea (di cui anch’io ho fat­to parte) hanno provato a co­niugare la teologia femmini­sta e il pensiero della diffe­renza. Ma lo scollamento di questa esperienza dalla vita delle comunità ne ha prodot­to l’invisibilità.
Ostica anche l’accoglienza del tema del Decennio suc­cessivo del Consiglio ecume­nico «Superare la violenza» (2001-2010), che incontra le comunità in fase di ripiega­mento su se stesse e sulla ce­lebrazione della propria sto­ria e con la crisi dell’impe­gno politico.
Ma che cosa ci propone l’enigmatica richiesta di Ecclesiaste («getta il tuo pane sulle acque…» - 11, 1), che è stata posta come motto dell’ultimo congresso della Ffevm? Nel bacino del Medi­terraneo il pane è un alimento di base e sono spesso an­cora le donne a prepararlo. Il pane è anche un simbolo di metamorfosi e di integrazio­ne di tutti gli elementi vitali: terra, acqua, aria, fuoco con aggiunta di sale e di lievito. Offrirlo alle acque sembra un gesto propiziatorio ma nel contesto del versetto po­trebbe essere un’incitazione a mettere a disposizione il nostro nutrimento e a « spendersi» con generosità come agente di vita, senza chiedersi, «di cosa mi so­sterrò se getto il mio pane sulle acque» come ricorda anche Matteo 5, «non siate con ansietà solleciti …».
Vorrei allora attraverso questa pagine invitare le donne delle nostre chiese a fermarsi e a «far pensiero dell’esperienza» (l’espressio­ne è di Françoise Collin). La più grande innovazione della fine dell’800, ci ricorda, è sta­ta la reciproca autorizzazione a pensare che le donne si so­no date attraverso la parola e l’azione, non chiamate ad al­linearsi ma a creare senso in relazioni di reciprocità.
È tempo, oggi, di far agire la nostra differenza, di rende­re conto della forza che sen­tiamo circolare quando ci in­contriamo, di dare valore noi per prime al nostro sguardo, di credere di avere qualcosa da dire e da fare. Vorrei dire provocatoriamente che nelle nostre chiese si sente la man­canza di Maria, sia la grande dea che la chiesa cattolica ha raccolto dalle tradizioni del Mediterraneo, sia la sorella di Mosè che conduceva le don­ne nell’espressione religiosa e che a lui osa ribellarsi, sia le discepole di Gesù Maria di Betania (sorella di Marta e di Lazzaro) e Maria di Magdala.
Al Congresso avevamo ini­ziato questo percorso di ri­flessione che a partire dal­l’amore per noi stesse esplo­rava le nostre relazioni fra donne e con gli uomini e la nostra opera nella chiesa. Mi auguro pertanto che questo lavoro prosegua nelle Unioni e nei gruppi, restituendo lo­ro significato non solo in quanto funzionali alla chiesa tutta ma anche per regalarci dei momenti «inutili» nella speranza un giorno di ritro­vare sotto il sole quel pane che avevamo gettato come gesto d’amore.

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