FAMIGLIE SENZA LAVORO - Alcoa di Portovesme

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®@ffstef@n
00lunedì 1 febbraio 2010 14:55


Tra censura politica e fuga dalla realtà:

perché la tv non racconta la crisi economica



 
Pubblicato da Riccardo Spiga alle 09:34



La vicenda degli operai dell'Alcoa di Portovesme, in Sardegna, è emblematica dell'approccio dell'informazione televisiva nel raccontare la crisi economica: poca, pochissima cronaca dei tanti casi di fallimenti aziendali e conseguente perdita di occupazione e molto chiacchiericcio politico con contorno di dati statistici, quasi sempre contraddittori e incomprensibili; salvo poi accorgersi delle persone in carne ed ossa quando i lavoratori inscenano qualche protesta clamorosa, come quella di venerdì scorso degli operai sardi, che hanno bloccato l'aeroporto di Cagliari per alcune ore. Altrimenti, silenzio totale o quasi.
Del resto le dichiarazioni, anche le più allarmanti, di politici e sindacalisti, o i dati sulla disoccupazione, sono in grado di preoccupare infinitamente meno dei volti disperati dei lavoratori che si ritrovano da un giorno all'altro senza un'occupazione, senza un futuro e con mutui da pagare e figli da far studiare.

E la tv, con le solite eccezioni come
Annozero, pare proprio che si sia data il compito di rassicurare il pubblico e di nascondere gli aspetti più tragici della recessione, oscurando le lacrime e la rabbia di chi si ritrova buttato in mezzo a una strada senza più lavoro e dignità.

I motivi di questa linea editoriale, seguita pressoché da tutta l'informazione del piccolo schermo, sono principalmente due.

Da un lato c'è senza dubbio la solita acquiescenza nei confronti del governo, la volontà di non disturbare il manovratore, che di suo non fa che accusare di essere anti-italiano chiunque non condivida il suo ottimismo;

dall'altro lato però c'è una motivazione diversa, che in un certo senso risponde a un'aspettativa del pubblico.


Un pubblico che di fronte alle "brutte cose" che raccontano i
telegiornali spesso cambia canale, perché preferisce perdersi dietro il mondo di plastica dei reality e delle veline piuttosto che aprire gli occhi di fronte a una realtà sempre più dura e preoccupante.

Una realtà che, appunto, non si vuole conoscere, che ci si rifiuta di analizzare, preferendole di gran lunga il sogno dozzinale e fatuo dello show in salsa televisiva.

Ma quando succede questo, quando le persone fuggono dalla realtà, allora bisogna cominciare a preoccuparsi:
perché significa che più o meno inconsciamente si sta radicando l'idea che non ci sia niente da fare, che informarsi non serva a nulla perché ci si sente impossibilitati a mobilitarsi e intervenire, perché la risoluzione dei problemi è delegata in bianco a un classe politica per la quale, tra l'altro, non si nutre alcuna fiducia.

In parole povere quando al dramma degli operai sopra i tetti che difendono il loro posto di lavoro si preferiscono le lacrime finte dei reality, significa che si è completamente persa la speranza che qualcosa, fuori dalla porta di casa, possa cambiare grazie al proprio impegno.

E allora non resta che drogarsi di tv. Una tv peraltro che pare felicissima di assecondare questo desiderio di oblio e di distacco dal reale.
 
®@ffstef@n
00domenica 7 febbraio 2010 11:31

ALCOA e il disastro ambientale
in Islanda


Marco Cedolin


La devastazione connessa alle grandi opere, spesso costruite per soddisfare gli insaziabili appetiti delle multinazionali, non ha risparmiato neppure una nazione come l’Islanda che da sempre siamo abituati ad immaginare come un’immensa distesa di spazi incontaminati, aliena ad ogni forma d’inquinamento, scarsamente urbanizzata e lontana anni luce dal “cancro” della cementificazione che stiamo sperimentando in ogni sua forma nelle nostre città.

Proprio in Islanda, nella regione di Karahnjukar, sta nascendo un faraonico progetto industriale destinato a cancellare per sempre 3000 kmq (circa il 3% dell’intera superficie nazionale)di territorio incontaminato. L’area selvaggia più grande d’Europa, la cui unicità stava per essere universalmente riconosciuta attraverso l’istituzione del più vasto Parco Nazionale del continente, sarà infatti destinata a scomparire nel silenzio mediatico più assoluto, sommersa dalle acque di 3 laghi artificiali e dalle esalazioni venefiche di una colossale fonderia.

Il ciclopico progetto Karahnjukar prevede la costruzione di 9 dighe in terra, fra cui la più imponente d’Europa, una centrale idroelettrica da 690 megawatt ed una mega fonderia in grado di produrre 320.000 tonnellate di alluminio l’anno. Artefici del progetto, con il beneplacito della compagnia energetica islandese Landsvirkjun, ma contro la volontà del 65% dei cittadini islandesi che hanno espresso la propria contrarietà all’operazione, saranno la multinazionale americana
Alcoa e l'italiana Impregilo.



Alcoa è la più importante corporation mondiale che opera nel settore dell’alluminio.
Ha recentemente chiuso 2 fonderie negli Stati Uniti al fine di trasferire parte della propria attività in Islanda dove le sarà possibile tagliare notevolmente i costi della manodopera, sfruttando gli immigrati cinesi e polacchi residenti in loco e soprattutto inquinare in completa libertà, dal momento che grazie ad una deroga del Protocollo di Kyoto all’Islanda è stato concesso di aumentare del 10% l’opportunità di emissione di gas inquinanti nell’aria. Il governo islandese si è inoltre impegnato a vendere l’elettricità prodotta tramite le dighe all’Alcoa ad un prezzo di favore per i prossimi 50 anni.

Impregilo accusata dall’Associazione ecologista Savingiceland di comportamenti intimidatori nei confronti degli ecologisti e vessatori verso i propri dipendenti, la maggioranza dei quali di nazionalità cinese, polacca e portoghese, ha già incominciato la propria opera di devastazione facendo saltare in aria con l’ausilio di cariche esplosive il più spettacolare canyon dell’Islanda, deviando il corso di 3 fiumi e iniziando la costruzione della diga Karahnjukastifla Dam che con i suoi 193 metri di altezza, 730 metri di lunghezza ed un volume approssimativo dell’invaso di 8,5 milioni di m³ sarà la più grande diga in terra d’Europa.


Il governo islandese ha tentato di creare nel paese condivisione nei confronti del progetto tramite una martellante campagna pubblicitaria mirata a proporre la fonderia di alluminio come una panacea in grado di risolvere i problemi di disoccupazione ed emigrazione che affliggono l’Est dell’Islanda. Nonostante queste effimere suggestioni la maggior parte dei 250.000 abitanti dell’Islanda, numerosi esponenti del mondo accademico e tutte le associazioni ambientaliste hanno avversato fin da subito un progetto dal quale finiranno per trarre giovamento solamente le multinazionali che sono deputate a costruirlo e gestirlo.


L’opinione pubblica islandese sta infatti comprendendo sempre più chiaramente come la ricaduta occupazionale promessa, consistente in 700 posti di lavoro, destinati in larga parte a mano d’opera straniera alla quale verranno corrisposti salari da terzo mondo, non costituisca assolutamente una motivazione sufficiente per giustificare l’avvelenamento dell’aria e dei fiumi, il dissesto idrogeologico e l’erosione che stravolgeranno la morfologia del territorio.

La disoccupazione e l’emigrazione continueranno sicuramente a rimanere un problema che semmai risulterà acuito dalla perdita di un patrimonio ambientale unico al mondo.

Nonostante ciò, come sempre più spesso avviene tanto nei paesi cosiddetti “in via di sviluppo” quanto nelle “mature” democrazie occidentali, tutte le decisioni vengono prese passando sopra la testa dei cittadini, senza che venga minimamente rispettata la loro opinione ed anche in Islanda si continua a scavare, spacciando un’azienda fra le più inquinanti ed energivore al mondo come elemento di progresso e sviluppo.
 


 

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