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Diario.It e antisemitismo

Ultimo Aggiornamento: 12/04/2007 13:15
12/04/2007 13:15
 
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Problemi di metodo nello storico e nell'insegnante,nei meriti per esempio della Shoa' e antisemitismo(nell'articolo si cita anche la richiesta di scuse del papa giovanni paolo II per le responsabilita' storiche della Chiesa nell'antisemitismo).

da www.diario.it/home_diario.php?page=spe.memoria.e01
Le lingue del ricordo
Lezioni di equilibrio
Insegnare il passato recente è un mestiere pericoloso. Bisogna evitare la retorica e la faciloneria, sapendo bene che in ogni caso si finisce per fare un uso pubblico della storia
di Giovanni Codovini

Cominciamo dalla fine, col negare evidenza a una proporzione accettata dagli storici laureati: l’insegnante sta allo storico come un venditore di santini sta al marchese de Sade. L’insegnante è altro rispetto allo studioso. Ergo, anche la memoria come oggetto di ricerca è cosa che attiene ai ferri del mestiere dello storico.
A guardar bene non solo nella ricerca storica, ma anche nella didattica possono mostrarsi i meccanismi di trasmissione e di codificazione del sapere storico e, soprattutto, del suo uso pubblico, quest’ultimo ancor più moltiplicato dal cosiddetto passato contemporaneo carico di cadaveri, folle e appunto memorie che oltremodo rischia di franare sul presente, schiacciandolo sotto il suo peso. L’insegnamento della contemporaneità non può del resto prescindere dalla dimensione pubblica della storia e maggiormente da quella delle relazioni fra le generazioni, capace di cogliere la qualità dei cambiamenti in atto. E proprio qui incrociamo uno dei nodi di fondo riguardanti la trasmissione delle memorie nella storia contemporanea: la responsabilità e il ruolo dell’insegnante il quale promuove la costruzione e partecipa alla definizione di un sistema di orientamento sul passato, che coinvolge più soggettività e più generazioni. Con un dato nuovo: esso è parallelamente organizzatore di conoscenza storica e testimone del suo tempo. Scisso tra «le passioni della politica dell’identità» (Eric J. Hobsbawn) e la preoccupazione di sfuggire all’intelligibilità, il docente è chiamato a evitare la trasformazione della memoria nel grado zero della narrazione storica e, allo stesso tempo, la qualunquistica «passateria» (Peppino Ortoleva), un sentimento esotico del passato che assomiglia più alla logica dell’antiquario (o meglio alla nobile arte del rigattiere), interessato ai fatti storici senza essere interessato alla storia. Nel primo caso, chiunque abbia una funzione formativa cadrebbe in un’amnesia di memoria (la memoria corta della memoria), nel secondo – nella migliore delle ipotesi – alimenterebbe un relativismo culturale (malattia infantile di ogni revisionismo), che finisce nell’ansia di comparazione per caratterizzarsi come generale svalutazione del passato, nella quale tutto e tutti sono sul medesimo piano.
Le riflessioni che seguono vorrebbero suggerire come evitare questo doppio pericolo, a partire dall’uso didattico delle memorie nella ricostruzione dell’universo concentrazionario, che innanzitutto legano culturalmente narranti, narrati e ascoltatori. Ripetiamo: culturalmente; poiché in tristi giorni nei quali presupposte e istituzionali Commissioni culturali intenderebbero cassare maldestramente i manuali di storia, ci chiediamo se una cittadinanza consapevole, o magari la costruzione di una «religione civile» oggi mancante, debba maturare intorno al principio di riconciliazione o non piuttosto occorra costruirla attraverso il più elaborato principio del riconoscimento, che sta d’altronde alla base della convivenza sociale e anche della ricerca. Il riconoscimento delle responsabilità politiche, collettive e civili (come nel caso delle leggi razziali). Poi il riconoscimento delle scelte soggettive. Diversamente dal principio di riconciliazione, più volte richiamato nel dibattito politico sul «passato che non passa», che attiene semmai alla legittima sfera privata della coscienza individuale, il principio del riconoscimento oppone un’esigenza di serrata indagine e una complessa opera di smascheramento, che sono il sale dell’insegnamento e della logica che guida la scoperta storica, ma anche il primo passo per la costruzione di un’appartenenza nazionale e, ancor più, di un’etica pubblica.
D’altronde, solo nel riconoscimento c’è anche vera Teshuvà, che in ebraico significa Pentimento ma anche Perdono, parola non a caso usata coraggiosamente dallo stesso pontefice Giovanni Paolo II in occasione del «riconoscimento» delle responsabilità storiche della Chiesa romana, anche di fronte alla Shoah. Il riconoscimento non è una strada che si può fare in maniche di camicia: presuppone un’interrogazione incessante anche sulle conseguenze; «è il risultato di una educazione e anche di una metamorfosi che riguarda tutti gli attori coinvolti» (David Bidussa); mentre si piega al passato rappresenta propriamente una «scommessa» sul futuro, in quanto ha nelle giovani generazioni il proprio destinatario.
Il Giorno della Memoria è una buona occasione per interrogare, poiché una scuola veramente laica e pubblica pone domande, riconosce problemi, meno che mai fornisce prescrizioni e indica soluzioni, che lascia al libero sviluppo individuale che dura tutta una vita. Così, la riconciliazione senza il duro sforzo del riconoscimento, cui è legato indissolubilmente il cammino della formazione, rischia la precettistica, tipica del casereccio «vogliamoci bene», la quale anzi svuoterebbe la polifonia della memoria e la multidimensionalità della storia, scivolando su una riscrittura del passato più vicino alla pratica della riabilitazione che non alla dura legge degli eventi. Insomma, avrebbe il tono esortativo di un’omelia buona per tutte le occasioni; che è un’altra cosa rispetto al sapere, all’insegnamento e alla virtù.
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